lunedì 5 settembre 2016

Santa Madre Teresa di Calcutta: dal divorzio viene la povertà più grande. L'uomo non osi dividere ciò che Dio ha unito.

Santa Madre Teresa di Calcutta, una testimone senza paura della bellezza del Vangelo. Riporto qui di seguito una sua presa di posizione forte contro il divorzio.


Lettera circolare di Madre Teresa di Calcutta in occasione del referendum irlandese sul divorzio del 1996 



Caro popolo d’Irlanda,

prego assieme a voi in questo tempo importante nel  quale la vostra nazione sta decidendo sulla questione della legge del divorzio.

La mia preghiera è che voi siate fedeli all’insegnamento di Gesù: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie ed essi diventeranno una sola carne. Ciò che Dio ha unito, non venga diviso da nessuno».

I nostri cuori sono fatti per amare, un amore che non è solo incondizionato, ma anche duraturo.

Quale è il significato del vero amore nel matrimonio?

Un uomo e una donna che veramente si amano, non prometteranno mai nel momento del matrimonio “ti amerò e sarò fedele per un po’”. Essi promettono sempre “ti amerò per sempre e sarò fedele a prescindere da quello che succederà o da quello che farai”.

Rompere la promessa del matrimonio di essere fedeli fino alla morte non è solamente contro il vero amore, ma ferisce in modo particolare i bambini.

I nostri bambini dipendono da noi in tutto: salute, educazione, cura, valori, guida e soprattutto amore. Ma in alcuni casi, la madre e il padre non hanno tempo per i loro figli, oppure l’unità dei genitori è infranta e così i figli lasciano la casa e vagano di qui e di là, e il loro numero aumenta di giorno in giorno.

Gesù si è donato sulla croce, perché era ciò che doveva fare per amarci e salvarci. Se un padre e una madre non sono disposti a donarsi fino a soffrire per essere fedeli reciprocamente, ed essere fedeli ai loro figli, essi non  mostrano ai loro figli cosa significhi amare. E se i genitori non mostrano ai figli cosa sia l’amore, chi altro glielo mostrerà? Questi bambini cresceranno spiritualmente poveri e questo genere di povertà è molto più difficile da superare rispetto a quella materiale.

È vero che molte famiglie hanno sperimentato tanta sofferenza a causa di violenze, alcolismo e abusi che hanno spesso portato a una rottura del rapporto. Se i membri di una famiglia pregano assieme, resteranno assieme. E se stanno assieme, si ameranno l’un l’altro come Dio ama ciascuno di loro. Il frutto della preghiera è gioia, amore, pace e unità nella famiglia e questo sarà un esempio di amore per i bambini e per i vicini di casa. E cosi non ci sarà bisogno del divorzio.

Come possono gli sposi rinunciare l'uno all'altro se si amano l'un l'altro? Il divorzio rompe, distrugge e causa terribili tentazioni. E causa anche sofferenze e dolori al cuore, ai bambini e all’intera famiglia. Il divorzio è uno dei più grandi uccisori della famiglia, dell’amore e dell’unità.

Se per qualche ragione gli sposi devono vivere separati, ciò non ha niente a che far col divorzio.

Quando un Paese permette il divorzio, il danno non è fatto solamente alle famiglie che vengono distrutte da esso. Il danno è fatto all’intera società, perché permettere il divorzio dice alle persone che la promessa del matrimonio non è di essere fedele “fino a che la morte non ci separi” ma solo “fino a che il divorzio non ci separi”. Ma ciò è molto diverso da quanto Gesù ci ha insegnato rispetto al matrimonio: “Ciò che Dio ha messo insieme, nessuno si permetta di  dividerlo”.

So anche che nel mondo ci sono grandi problemi, che molti sposi non si amano abbastanza da essere fedeli fino alla morte. Noi non possiamo risolvere tutti i problemi del mondo, ma non permettiamo mai che si introduca il peggiore problema di tutti che è distruggere l’amore. E questo è ciò che facciamo quando diciamo alle persone sposate che possono divorziare e andare con qualcun altro.

Inoltre, un Paese che accetta il divorzio avrà sempre più famiglie separate e ciò condurrà ad una maggiore disunione… e a maggiori disunioni in altre famiglie. Questo non solo perché il divorzio è un distruttore d’amore, unità e pace, ma anche perché i divorziati si sentono soli e spesso trovano amici della loro età che solitamente sono sposati. Questo genere di amicizia rompe altri matrimoni e ciò andrà  semplicemente avanti.

Un Paese non dovrebbe mai introdurre, per la ricerca di benefici e ricchezze materiali, la più grande povertà che è quella spirituale. E questo è ciò che accade introducendo il divorzio, che distrugge l’amore nella famiglia.

Ricordiamoci che il divorzio non è sbagliato solo per i cattolici. È sbagliato per tutti, perché è contro l’amore tra un uomo e una donna intraprendere un tipo di matrimonio nel quale essi promettono di essere fedeli “fino a che divorzio non li separi”.

Preghiamo. La gioia di amare è la gioia di condividere la vita come Maria e Giuseppe, durante il tempo della sofferenza e della difficoltà, stare insieme nell’amore, nell’unità e nella fiducia. Possa questo essere oggi un esempio per tutte le famiglie.

Prego che l’Irlanda, votando “No” al divorzio, continui ad essere un segno di unità, di amore e di pace per il mondo, specialmente di pace nel luogo nel quale essa deve iniziare, la famiglia. Pregate sempre insieme e starete insieme e vi amerete l’un l’altro come Dio ama ciascuno di voi.

Preghiamo. Dio vi benedica.

lunedì 1 agosto 2016

Mons.Bernardini arciv. di Smirne:«Non si conceda mai ai musulmani una chiesa per il culto, per loro è la prova della nostra apostasia»

«Non si conceda mai ai musulmani una chiesa per il culto, per loro è la prova della nostra apostasia»
di Piero La Porta

L’Arcivescovo di Smirne (Turchia), Mons. Germano Bernardini, fece un intervento al Secondo Sinodo di Vescovi d’Europa  il 13 ottobre 1999. Il testo scritto fu consegnato alla segreteria del Sinodo sul problema dell’Islam. Ecco il testo integrale.

«Santo Padre, Eminenze, Eccellenze,
vivo da 42 anni in Turchia, paese musulmano al 99,9%, e sono arcivescovo di Izmir – Asia Minore – da 16 anni. L’argomento del mio intervento è quindi scontato: il problema dell’Islam in Europa ora e nel prossimo futuro. Ringrazio Mons. Pelatre e chi ha già parlato sull’argomento in questo prestigioso consesso, dispensandomi così da lunghi esami e dalle relative interpretazioni.

Il mio intervento è fatto soprattutto per rivolgere al S. Padre un’umile richiesta. Per essere breve e chiaro, prima riferirò tre casi che, data la loro provenienza, reputo realmente accaduti.

1°  - Durante un incontro ufficiale sul dialogo islamo-cristiano, un autorevole personaggio musulmano (ndR, secondo fonti attendibili era Sadat Anwar (1918-1981), presidente della repubblica egiziana dopo la morte di Nasser-1970. Sadat venne assassinato dalla corrente integralista dei Fratelli musulmani, che pensavano invece ad una lotta armata), rivolgendosi ai partecipanti cristiani, disse ad un certo punto con calma e sicurezza: «Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo».
C’è da crederci perché il “dominio” è già cominciato con i petrodollari, usati non per creare lavoro nei paesi poveri del Nord Africa o del Medio Oriente, ma per costruire moschee e centri culturali nei paesi cristiani dell’immigrazione islamica, compresa Roma, centro della cristianità. Come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista?

2° - In occasione di un altro incontro islamo-cristiano, organizzato come sempre dai cristiani, un partecipante cristiano chiese pubblicamente ai musulmani presenti perché non organizzassero almeno una volta anche loro incontri del genere. L’immancabile autorevole musulmano presente rispose testualmente: «Perché dovremmo farlo? Voi non avete nulla da insegnarci e noi non abbiamo nulla da imparare».
Un dialogo tra sordi? E’ un fatto che termini come “dialogo”, “giustizia”, “reciprocità”, o concetti come “diritto dell’uomo”, “democrazia”, hanno per i musulmani un significato completamente diverso dal nostro.
Ma questo credo che sia ormai riconosciuto e ammesso da tutti.


3°  - In un monastero cattolico di Gerusalemme c’era – e forse c’è ancora – un domestico arabo musulmano. Persona gentile e onesta, egli era molto stimato dai religiosi che ne erano ricambiati. Un giorno con aria triste egli dice loro: «I nostri capi si sono riuniti e hanno deciso che tutti gli “infedeli” debbono essere assassinati, ma voi non abbiate paura, perché vi ucciderò io senza farvi soffrire».
Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, a un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni. Del resto la storia ci insegna che le minoranze decise riescono sempre a imporsi alle maggioranze rinunciatarie e silenziose.
Sarebbe ingenuo sottovalutare o, peggio ancora, sorridere sui tre esempi che ho riferito; a me pare che si dovrebbe riflettere seriamente sul loro drammatico insegnamento.

Non è pessimismo il mio, nonostante l’apparenza. Il cristiano non può essere pessimista perché Cristo risorto e vivente; Egli è Dio, a differenza di ogni altro profeta o preteso tale. La vittoria finale sarà di Cristo, ma i tempi di Dio possono essere molto lunghi, e di solito lo sono. Egli è paziente e aspetta la conversione dei peccatori: nel frattempo invita però la Chiesa a organizzarsi e a lavorare per affrettare l’avvento del suo Regno.

E ora vorrei fare al Santo Padre una proposta seria: organizzare quanto prima se non un Sinodo, almeno un Simposio di vescovi e operatori della pastorale fra gli immigrati, con particolare riferimento agli islamici, allargandolo ai rappresentanti della chiesa riformata e agli ortodossi. La sua organizzazione potrebbe essere affidata alla CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, ndR) che ha in materia una lunga e collaudata esperienza, in collaborazione con la KEK (Conferenza delle Chiese europee, ndR).

Il Simposio dovrebbe servire per approfondire insieme il problema degli islamici nei paesi cristiani, e trovare così una strategia comune per affrontarlo e risolverlo in maniera cristiana e obiettiva. E’ indispensabile trovarsi d’accordo sui principi, ance se poi la loro applicazione varierà secondo i luoghi e le persone. Nulla è dannoso come il disaccordo sui principi!

Termino con un’esortazione che mi è suggerita dall’esperienza: non si conceda mai ai musulmani una chiesa cattolica per il loro culto, perché questo ai loro occhi è la prova più certa della nostra apostasia. Grazie. Dixi»

Mons. Germano Bernardini, al termine del Sinodo tornò a Smirne. All’età di 75 anni si ritirò a vita privata.



Fonte: ilTimone

lunedì 18 luglio 2016

Basta. Dopo Nizza, basta con le stupidaggini. (un'analisi di Bruce Bawer)

Basta. Dopo Nizza, basta con le stupidaggini 
Analisi di Bruce Bawer

(Tradotto dal City Journal del 16 luglio 2016 da Laura Camis De Fonseca)

Basta con la bandiere su Facebook in segno di solidarietà. Basta con empatici hashtags su Twitter. Basta con le dichiarazioni retoriche di capi di stato su come “ i terroristi non sono riusciti a metterci gli uni contro gli altri’. Basta con le altrettanto retoriche dichiarazione di altri capi di stato per esprimere sostegno ai ‘nostri alleati nel momento del lutto’. Basta ai richiami all’amore davanti all’odio, basta alle sfilate con le candele contro l’assassinio. Basta esclamazioni di dispiacere e scosse di testa davanti all’orribile morte – come se le persone fossero morte per un eccezionale disastro naturale, un tornado o uno tsunami – cui segue il ritorno alla normalità entro un paio di giorni. Fino alla volta successiva, naturalmente.

Basta con l’analisi psicologica di ogni nuovo jihadista, alla ricerca di problemi di famiglia o di lavoro che possano spiegare perché 'è diventato violento ed estremista’. Basta con le pensose affermazioni che ‘questo non ha nulla a che vedere con l’Islam’, che una manciata di cattivi si è impadronita di una ‘religione di pace’ , ma la grande maggioranza del miliardo e mezzo di Islamici sono, ovviamente, persone pacifiche che ‘rifiutano questi comportamenti’. Basta con l’abile diversione del discorso sulla questione del controllo delle armi in America, o l’omofobia in America, o qualunque altra diversione appaia possibile per l’occasione. Basta con l’accusare gli ipotetici fallimenti dell’Europa nell’integrare e accettare gli Islamici o nel dargli lavoro, o la ipotetica povertà dei Musulmani, la loro alienazione, frustrazione, mancanza di prospettive.

Il luogo dell'attentato a Nizza
Basta con i giornalisti che si torcono le mani, ritti a pochi metri dai cadaveri, al pensiero delle possibili ‘ripercussioni’ sui Musulmani (che non si avverano mai). Basta con le dichiarazioni da parte di funzionari americani che soltanto menzionare l’Islam in connessione con il terrorismo islamico è ‘pericoloso e controproducente’, perché ci aliena le simpatie degli alleati islamici e delle comunità islamiche del cui aiuto abbiamo bisogno per combattere il problema di cui non osiamo dire il nome. Basta con le rispettose interviste in TV a rappresentanti di ‘organizzazioni islamiche per i diritti civili’ che hanno dato prova più e più volte di essere coperture del terrorismo.

Basta con le oltraggiose bugie dei governi e dei media che, quasi 15 anni dopo l’11 settembre, tengono tanti Americani vergognosamente all’oscuro della realtà in cui viviamo. Basta con i derisori tentativi quotidiani da parte degli stessi governi e media di tenere sottomessi gli Americani obbedienti con la paura che, se osano definire apertamente il problema, saranno cacciati per sempre nell’oscurità, fuori dalla buona società, divenendo impresentabili come collaboratori e come amici. Basta con la tirannia sociale da parte di coloro che (per codardia, o per impotenza, o per mancanza di senso di responsabilità nel mantenere il prezioso dono della libertà per cui combatterono i loro antenati, o per incomprensibile mancanza di interesse per il mondo in cui vivranno i loro figli e i loro nipoti) trattano come nemici non coloro che cercano di ammazzarli, ma coloro che osano dire apertamente la verità.

Bruce Bawer
Basta con l’ignoranza. Un paio di settimane fa Adam Carolla registrò il suo podcast – uno dei più popolari su internet – in una platea di persone ad Amsterdam. Carolla, che viene da Los Angeles, chiese ai residenti com’è la vita in Olanda. Gli fecero un ritratto tutto roseo. Domandò delle religioni, gli rappresentarono un paese di quasi utopistica secolarità, privo di credi reazionari. Nascondendo così nella fogna della memoria il ricordo di Pim Fortuyn, Ayaan Hirsi Ali, Theo Van Gogh, Geert Wilders. Carolla non trovò nulla da obiettare. Ma soltanto l’altro ieri in un’intervista sul podcast di Joe Rogan (ancora più ascoltato di quello di Carolla) il conservatore Milo Yiannopoulos, omosessuale, ha presentato alcuni fatti fondamentali che tutti dovrebbero conoscere negli USA, se i media di massa facessero il loro dovere – fatti sul tasso di stupri commessi da Musulmani in Norvegia, sul livello di astio anti omosessuale nelle comunità islamiche e sul lavoro sistematico dei governi europei per nascondere questi ed altri fatti irritanti. Rogan, che non è uno stupido ed ha intervistato centinaia di persone per imparare a conoscere il mondo, era scioccato.

Negli anni dopo l’11 settembre i grandi atti di terrorismo accadevano più o meno una volta l’anno, con larghi intervalli di tempo fra l’uno e l’altro, che permettevano di credere che tutto andasse bene, che si potessero dire benevole stupidaggini. Ora sono così frequenti, così l’uno sull’altro, che fatichiamo a ricordarli tutti. L’unico vantaggio è che è sempre più difficile continuare a far finta di niente.

Il tempo dello shock è terminato. E’ terminato il tempo per accumulare fiori e candeline e animaletti di pezza sui luoghi dell’abominio. Cessino le bugie, l’ignoranza e le illusioni, si affrontino i fatti. Il libero e civile Occidente è da anni oggetto di una guerra di conquista, condotta con molti mezzi, di cui uno è il terrorismo, da parte di Islamisti che predicano la sottomissione, l’intolleranza, la brutalità – mentre i nostri media e i nostri leader, con poche eccezioni, continuano a condurre un gioco la cui fatuità, indecisione e vigliaccheria diventano sempre più ovvie. Ma dopo Nizza basta.


Fonte: Informazionecorretta.com

giovedì 7 aprile 2016

Samir Khalil Samir, consigliere di Papa Ratzinger: "Vi spiego il ricatto islamista"

Il consigliere di Ratzinger
"Vi spiego il ricatto islamista"

Samir Khalil Samir, islamologo e consigliere di Benedetto XVI per i rapporti con l'islam, analizza il ricatto islamista contro l'Europa cristiana

"Le città sono già occupate". Dagli islamici, dall'islam radicale. Non usa mezzi termini Samir Khalil Samir, islamologo e consigliere di Benedetto XIV per i rapporti con l'islam. In un lungo articolo pubblicato sul Foglio, il docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma, analizza senza peli sulla lingua la realtà e il ricatto dell'islam all'Europa cristiana.

Il ricatto islamista
L’Europa è stata troppo tollerante con la radicalizzazione che cresceva nelle sue città. E’ banale dire che il fondamentalismo è causato dalla disoccupazione

Vorrei partire da un dato di fatto, come premessa. Siamo in presenza di un fenomeno sociologico “normale”: le città sono già occupate. Trovare un posto nel cuore dei grandi agglomerati urbani è difficile per chiunque, se non è già installato lì. Man mano che arrivano, gli immigrati vanno a stabilirsi attorno alla città e la conseguenza più banale è che si formano dei quartieri abitati solo da immigrati: cercano una casa dove hanno un parente, un amico, una persona del proprio luogo. Così si costituiscono, ovunque nel mondo, dei quartieri che sono contraddistinti da una certa prevalenza culturale. Può essere un quartiere di spagnoli, di italiani. Negli ultimi tempi, l’emigrazione massiccia – e la più diffusa – è quella che ha come luogo d’origine i paesi musulmani. Il problema è che questi sono oggi più di 16 milioni nell’Unione europea, secondo l’Istituto centrale tedesco degli archivi sull’islam (Zentralinstitut Islam Archiv Deutschland). Ecco perché esistono molti quartieri massicciamente musulmani. Ecco perché dico che è un fenomeno culturale. Questo è un primo fatto, sociologico.

Poi però, c’è un secondo problema. Dobbiamo capire che l’islam non è una religione nel senso cristiano della parola. Almeno, non è solo questo. Per noi, la religione è un rapporto personale tra me e Dio, con annesso qualche legame religioso spirituale con altre persone. Nel sistema islamico, la religione è tutto. E’ un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è un campo che sia esterno all’islam. Pensiamo al modo di relazionarsi agli altri: se parlo con un uomo o con una donna, è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam. La religione penetra ogni aspetto.

Dunque è normale che, trovandosi tutti assieme, man mano la libertà personale venga a essere limitata, perché ci saranno sempre persone – diciamo “specialisti” (imam o semplicemente persone che pretendono di aver studiato l’islam) – che verranno a dire “tu ti comporti male, devi agire così”. C’è una propaganda che porta a dire che un determinato quartiere deve essere gestito in modo islamico. Si pensi, poi, che c’è anche un modo “islamico” di vendere e comprare le cose. La conseguenza di questo sistema è che, con l’andare del tempo, si creano delle unità a se stanti, isole dove è più facile indottrinare la gente.

Inoltre, negli ultimi tempi, la tendenza – che esiste da decenni nel mondo islamico, almeno dagli anni Sessanta – è quella di una diffusione di una visione dell’islam sempre più integralista, fondamentalista, collettiva; una visione della vita che si impone lentamente alla maggioranza. E’ il sistema wahhabita o salafita, o dei Fratelli musulmani. Tutti vanno nella stessa linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi. Al centro di questa isola si metterà la moschea. Si dirà: “Ci sono tante chiese e noi non abbiamo neanche un piccolo luogo di preghiera”. Si faranno pressioni sui comuni cittadini, per dire “rispettateci”. Allora, o l’amministrazione pubblica dice “va bene, vi regaliamo quel terreno”, oppure loro lo acquisteranno, aiutati dai paesi petroliferi.

Costruiranno allora un piccolo centro, che pretenderebbe di essere solo per la preghiera, ma che subito vedrà sorgere librerie con volumi fatti a mero scopo propagandistico. Nascono così i centri islamici. Il fatto è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica. Forse, una volta se ne faceva un po’, ma oggi chi va in chiesa lo fa per pregare. Nella moschea no. Il discorso ufficiale durante la preghiera del venerdì è solo in parte religioso. La parte preponderante, invece, è socio-politica. Questo è il sistema stabilito e chi lo pratica fa bene, è un buon musulmano e un buon imam.


La Francia “laicarda”

In Francia, i comuni hanno il diritto di concedere un terreno o una costruzione per 99 anni in cambio di 1 euro simbolico: è ciò che si chiama un bail emphytéotique. Questo sistema risale a una decisione di secoli fa, ma ora è divenuto il metodo più diffuso in Francia per dare ai musulmani un terreno per costruire una moschea. E questo perché il diritto che lo permette risale al diritto romano, benché esso sia molto cambiato nel frattempo. Le comunità si presentano dicendo: noi siamo poveri, non abbiamo luoghi decenti per pregare, mentre i cristiani hanno da secoli delle chiese, e noi non abbiamo niente. Allora dateci questo, visto che la legge vi autorizza a farlo. La conseguenza? I comuni e i governi si lasciano convincere da tali motivazioni e regalano il terreno. Solo dopo, quando ormai è troppo tardi, si scopre che lì si fa  propaganda islamista, jihadista, e si crea così un quartiere islamico, dove la polizia non ha sempre la possibilità di accedere.

La Francia è sempre più non solo laica, ma (come si dice in francese) laicarda. Ha cioè un progetto laico, che è in realtà anti religioso e anti cristiano. Anzi, essenzialmente anti cattolico. Basta vedere l’atteggiamento dell’attuale Primo ministro Manuel Valls, e quello di Vincent Peillon (ex ministro dell’Istruzione) che diceva in televisione “dobbiamo uccidere la chiesa cattolica”. Per lui, “non si potrà mai creare un paese di libertà con la chiesa cattolica” . Ma la chiesa non ha mai usato, nella nostra epoca, mezzi politici e illegali. La chiesa dice la sua, come ogni uomo ha il diritto di fare. Non ha possibilità concrete di fare pressione sulla gente. La prova è che ogni anno ci sono sempre meno persone che si dichiarano cristiane. Ma Valls e Peillon ritengono che il cristianesimo ha un influsso troppo forte. Al contempo, il governo francese ha bisogno di voti e cerca i musulmani, dando loro piccoli o grandi vantaggi in cambio di consenso.

Penso alla preghiera musulmana del venerdì, fatta per strada: è inammissibile, qualunque sia il motivo. Se voglio utilizzare il luogo pubblico (la strada) per un atto religioso, anche io cattolico devo chiedere il permesso. Penso a un caso eccezionale, la processione per la festa del Corpus Domini: non si può fare senza prima ottenere il via libera dlle autorità, non si può decidere di scendere liberamente in strada. Se non c’è il permesso, lo Stato ha il diritto di impedire che si blocchi la strada. Invece, ogni settimana, ogni venerdì, lo si fa. Con il pretesto che – dicono – non hanno moschee o che le moschee sono troppo piccole. Io l’ho visto a Parigi: fanno venire i musulmani dalle periferie nel centro della città per dire “vedete, le moschee sono troppo anguste”. C’è una sorta di ricatto, uno scambio: usano tutto a fini politici. Ed è per questo che l’islam si “arrangia” bene con lo stato.

Anche a Milano, in viale Jenner, lo rivendicavano come diritto. La verità è che siamo incoscienti: se si impedisce di occupare le strade, passa l’idea che si sia anti musulmani. Invece è solo una norma di buon senso. Gli islamisti, i fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi per imporsi. Poniamoci per un attimo su un piano più profondo, andiamo a vedere come un quartiere si trasforma in un quartiere più islamista (non dico islamico). I gruppi radicali hanno come scopo principale di diffondere la loro visione dell’islam, perché per loro è quello l’autentico islam, il più veritiero, e quindi va imposto a tutti i musulmani. Di conseguenza, questi quartieri che un tempo erano misti, diventano quartieri musulmani radicali, dove i non musulmani – oppure i musulmani moderati – se ne vanno. Così il quartiere non è più integrato nella città.


Accoglienza e falsa tolleranza

Spesso si critica lo stato accogliente. A mio giudizio, dobbiamo accogliere lo straniero che si trova in estrema difficoltà (come spesso accade di questi tempi). Ma dobbiamo anche aiutarlo a integrarsi realmente. Lo stato deve spiegare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima fra tutte la necessità d’imparare la lingua nazionale. Si dovrebbe spiegare che non si può rimanere qui, in Europa, se non ci si comporta non solo conformemente alle nostre leggi, ma anche in secondo le norme e le usanze delle nostre società.  Ma cosa significa “integrare”? Significa far sì che l’altro sia uno di noi. Perché se l’altro non si integra, per esempio con la lingua, avrà difficoltà a trovare anche determinate occupazioni. C’è troppa falsa “tolleranza” e disorganizzazione, mancanza di riflessione su ciò che significa “accogliere”. E’ un compito molto delicato e impegnativo. Ma si deve aggiungere che, se i flussi migratori rappresentano un peso per lo stato e per le comunità, si deve riconoscere anche che l’Europa, con la sua demografia estremamente bassa, ha bisogno anche di loro, persone dal valore umano indispensabile a questo continente.

E’ banale ricondurre l’ondata integralista nelle banlieue a problemi socio-economici. Riflettiamo sulla disoccupazione: sono disoccupati perché non hanno imparato un mestiere in modo corretto, in modo da essere ricercati e non rigettati. L’ho notato in Francia: i ragazzi di questi quartieri, anziché studiare, facevano chiasso per le strade, andando in giro per gruppi alla sera, anzichè studiare. La gente, anche musulmana, aveva paura. Invece le ragazze erano a casa, facendo i compiti, lavorando. Personalmente l’ho constatato nella banlieue di Parigi, dove andavo ogni sabato sera a riflettere con una ventina di giovani musulmani: che tutte le ragazze avevano un lavoro. I ragazzi invece molto di meno, con anche poche possibilità di avere un buon lavoro. Perché non erano stati seri a scuola. Perché il ragazzo è libero, mentre la ragazza è controllata, e questo è un principio islamico. C’è la volontà di marginalizzarsi.

Bisogna confrontarsi con un fatto chiaro: l’europeo (generalmente di tradizione, se non di fede, cristiana) è diverso dal musulmano nella sua mentalità. La causa di ciò non è lo stato: la causa sono io, giovane musulmano che rifiuta l’integrazione in nome della fede. Ecco perché le famiglie dovrebbero aiutare in questo senso, favorendo l’integrazione; dire “voi siete responsabili di voi stessi, ma per questo dovete integrarvi a tutti i livelli”, non andando a intaccare la fede musulmana, ben radicata nel profondo del cuore e nei comportamenti.


Molenbeek spiega le bombe di Bruxelles

Quanto avvenuto a Bruxelles non è una sorpresa. Nel quartiere di Molenbeek, ma non solo in questo, io ho visto scene con uomini che dicevano alla polizia: “Che venite a fare qui? Questo non è campo vostro”. E la polizia, trovandosi in tali situazioni, preferivano andarsene. Uomini che, pure non intenzionati a fare uso della forza, avevano un aspetto intimidatorio. Non si deve accettare nessuna eccezione, mai:  sia italiano da mille anni o da un anno. Ci sono delle norme, e devono essere rispettate. I tedeschi hanno un’espressione molto bella e sempre applicata: Ordnung muss sein!, cioè “l’ordine deve esistere, tutto deve essere fatto secondo l’ordine previsto!”. Per questo sono più avanzati in questo campo. In Germania non ho mai visto, in trent’anni, un gruppo di musulmani come ho visto a Birmingham o a Parigi, che vanno in giro a fare pressione sulla popolazione musulmana. In Germania hanno infatti imparato che ognuno può ottenere diritti solo se rispetta le norme comuni del paese dove vive e che ha scelto per se stesso.




Samir Khalil Samir S.I. è un islamologo gesuita, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Già Pro rettore dell’istituto, è stato anche consigliere di Benedetto XVI riguardo i rapporti con l’islam




Fonti: il Foglio - il Giornale





mercoledì 23 marzo 2016

Il patto dietro all'islamizzazione di #Bruxelles. Così il #Belgio accettò il ricatto suicida dell’Arabia Saudita.

Il patto dietro all'islamizzazione di Bruxelles

Così il Belgio accettò il ricatto suicida dell’Arabia Saudita: greggio in cambio di islam. E il re Baldovino siglò la trasformazione del “laboratorio multiculti” nel nido del jihad
di Giulio Meotti


"Bruxellistan”. “Belgistan”. “Molenbeekistan”. Si sprecano ormai le definizioni per indicare la trasformazione di quel paese fatto di caffè, di teatri, di circoli municipali, di carillon, nella base delle stragi di Parigi del 13 novembre. Per usare il titolo del libro di Felice Dassetto, sociologo dell’Università cattolica di Lovanio, è “L’iris et le croissant” (il giaggiolo, il simbolo di Bruxelles, e la mezzaluna islamica). “Le antiche città del Belgio sono state le culle dell’arte e della cultura cristiana”, ha scritto l’Economist qualche numero fa. “Ma così come il ruolo del cristianesimo è scemato, un nuovo credo, l’islam, sta guadagnando importanza”.

Come rivela un recente sondaggio del Centre Interdisciplinaire d’Etude des Religions et de la Laïcité, nella capitale dell’Unione europea i cattolici praticanti sono scesi al dodici per cento della popolazione, mentre il diciannove per cento sono musulmani praticanti. Succede allora che la città di Maaseik, resa famosa da Jan Van Eyck con la sua Adorazione dell’agnello mistico, sia diventata celebre per il reclutamento di jihadisti dell’Isis. Come ha fatto Molenbeek, la “Piccola Manchester” che il sindaco socialista Philippe Moureaux definiva orgoglioso “laboratorio socio-multiculturale”, a diventare il quartier generale del jihad europeo da Atocha al Bataclan, il “carrefour de l’islamisme”, il crocevia dell’odio islamista in Europa, come lo definisce Libération? Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Fu il primo paese europeo. Il risultato immediato, nel 1975, fu l’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. “Fu una decisione del re belga Baldovino”, dice al Foglio Michael Privot, massimo islamologo belga e direttore dell’Enar, l'European Network Against Racism. Baldovino, il “re triste”, cattolico e austero, “aveva stabilito buoni legami con la monarchia saudita e il re Faisal. Questo riconoscimento avvenne nel mezzo della crisi petrolifera, perché il Belgio cercava rifornimenti dall’Arabia Saudita. Nel 1974, i musulmani in Belgio erano alla prima generazione, lavoravano nelle miniere e volevano spazi per pregare nelle moschee. Allora non c’era autorità religiosa in Belgio. Il re Baldovino offrì ai sauditi il Pavillon du Cinquantenaire con un affitto della durata di 99 anni. L’edificio sorge a duecento metri dal Palazzo Schuman e dal quartier generale dell’Unione europea; l’Arabia Saudita lo trasformò nella Grande Moschea del Cinquecentenario, diventando l’autorità islamica de facto del Belgio. Alla fine degli anni Novanta è nata una autorità formale, l’Esecutivo dei Musulmani in Belgio, che si occupa degli aspetti materiali, ma non degli aspetti teologici. Questo spazio è rimasto occupato dalla Grande Moschea sotto guida saudita”.
L’allora ministro della Giustizia belga, Pierre Wigny, con il re saudita Faisal
Tre anni fa, documenti di WikiLeaks hanno rivelato tensioni fra il Belgio e l’Arabia Saudita. Bruxelles era molto preoccupata per il fondamentalismo islamico diffuso dalla Grande Moschea. Le autorità belghe ottennero così la testa del direttore, Khalid Alabri, un diplomatico saudita. Una scelta, quella fatta dal Belgio quarant’anni fa, criticata oggi anche dal ministro francofono belga Rachid Madrane, musulmano, che al giornale La Libre ha detto: “Il peccato originale del Belgio consiste nell’aver consegnato le chiavi dell’islam nel 1973 all’Arabia Saudita per assicurarci l’approvvigionamento energetico”. Sono tante le propaggini saudite a Bruxelles. Il centro Imam al Bukhari coordina le attività culturali pro-saudite in Belgio, mentre il Centro islamico e culturale del Belgio (Cicb) è diventato la sede europea della Lega musulmana mondiale. L’obiettivo del Cicb è quello di “rafforzare la vita spirituale dei musulmani che vivono in Belgio”, aprendo moschee e scuole coraniche. Ma il Cicb, per fare qualche esempio, consiglia alle donne di consultare soltanto ginecologi femmine, scoraggia i giovani musulmani dal vendere birra e raccomanda ai musulmani di abbassare lo sguardo in presenza di una bella donna. Sermoni al Cicb chiamano Bruxelles “capitale dei kuffar” (infedeli).

Il patto col Belgio rientra in un più vasto progetto globale: dal 1979, le autorità saudite hanno speso più di sessanta miliardi di euro nella diffusione nel mondo del wahabismo, una visione dell’islam che si basa sul monoteismo assoluto (tawhid), il divieto di innovazioni (bid’ah), il rigetto di tutto ciò che non è musulmano, la scomunica dei “miscredenti” (takfîr) e la lotta armata (jihad). L’Arabia Saudita dona ogni anno un milione di euro alle venti moschee di Mollenbeek per il loro rinnovamento e manutenzione. Alla Grande Moschea di Bruxelles, dono del re belga ai sauditi, si sono formati imam come Rachid Haddach, uno dei più popolari predicatori salafiti oggi a Bruxelles. Haddach gestisce la moschea Assouna di Anderlecht. Nelle sue tirate, Haddach spiega che i bambini musulmani in Belgio, anziché andare alla scuola materna, dovrebbero stare a casa fino all’età di sei anni in modo da non essere contaminati da un ambiente non islamico. La musica? “Faresti meglio a leggere il Corano”. Il burqa? “Halal” (consentito). E gli uomini devono farsi crescere la barba. Lo ha detto il Profeta. Così, mentre la Turchia si sforzava di portare avanti una opera di educazione religiosa non estremista, gli imam del Marocco, da cui veniva la maggioranza dei musulmani del Belgio (i futuri Salah Abdeslam), venivano egemonizzati dai sauditi con il loro approccio salafita e wahabita, lo stesso cui oggi si ispira lo Stato Islamico (non a caso l’Arabia Saudita è il primo paese per reclutamenti dell’Isis).

Nel 1978, la Grande Moschea di Bruxelles venne aperta al pubblico dopo un lungo restauro a spese dell’Arabia Saudita, in presenza del re Khaled Abdulaziz Al Saud e del monarca Baldovino. E nel 1983, con la firma di André Bertouille, ministro dell’Istruzione, un regio decreto approvò anche le operazioni della Lega Islamica Mondiale a Bruxelles, che secondo Felice Dassetto serve a trasformare l’Arabia Saudita nel “polo egemone di tutto il mondo musulmano”. “L’impatto dell’Arabia Saudita, attraverso la Grande Moschea, è stato forte, diffondendo tonnellate di libri gratuitamente in tutte le lingue per le moschee e le altre organizzazioni islamiche, copie del Corano”, continua al Foglio Michael Privot. Libri che glorificano il jihad o dottamente spiegano che la moglie deve obbedire al marito “quando la invita a condividere il suo letto”. “L’Arabia Saudita ha offerto numerosi contributi alla seconda e terza generazione di giovani musulmani disposti ad andare alla Mecca e Medina per imparare le scienze islamiche”, dice Privot. “Oggi, a Bruxelles, il 95 per cento dell’offerta di corsi sull’islam è gestito da giovani predicatori formati in Arabia Saudita. I predicatori sauditi hanno anche tenuto centinaia di conferenze in tutto il Belgio e quindi hanno avuto un impatto fondamentale sulla comprensione dell’islam da parte delle nuove generazioni. In termini di diffusione della sua versione dell’islam, l’Arabia Saudita ha avuto una delle più potenti strutture politico-diplomatiche. E ne stiamo pagando il prezzo oggi”. Paghiamo le conseguenze di quel ricatto suicida. Della trasformazione del giaggiolo in mezzaluna. E del Belgio che, anziché per la Madonna di Michelangelo a Bruges, ormai fa parlare di sé per Molenbeek, pied à terre della guerra santa islamica all’uomo qualunque europeo.



Fonte: ilFoglio

martedì 16 febbraio 2016

Questa la disinformazione in Italia. Le Iene smascherate da Radio Maria, i video.

Questa la disinformazione in Italia, al servizio del pensiero unico, per screditare una delle poche voci libere di questo paese, che ha avuto l'ardire di non schierarsi a favore delle cosiddette unioni civili e della stepchild adoption, ma di schierarsi con i più deboli, difendendo i diritti dei bambini e delle donne. Dopo il servizio delle Iene, alcuni giornali hanno ripreso senza verificarla la notizia del "pestaggio" ricevuto dai poveri inviati. (La Repubblica, il Giornale, il Mattino, adnkronos, Corriere della Sera, il Messaggero. Huffington Post, ll Secolo XIX, LiberoSecolo d'Italia, ANSA)

Vi propongo di seguito il servizio delle Iene in questione.



Ecco invece il filmato diffuso sulla pagina facebook di Radio Maria in cui si vede chiaramente quello che è successo.



Non servono commenti, è evidente che non c'è stata alcuna aggressione al cameraman, gettatosi per terra da solo nel tentativo di impedire ad un volontario di radio Maria di coprire l'obiettivo della telecamera mentre filmava l'interno della sede. Nessuna percossa, nessuno spintone, nessun pestaggio.

Questo il comunicato di Radio Maria:

Alcuni social hanno pubblicato la notizia che le Iene, che hanno fatto irruzione Venerdì sera nella sede di Radio Maria, sono state picchiate.

E’ una notizia inventata dal nulla, al solo scopo di lanciare il servizio televisivo.

In realtà questa è stata la sequenza dei fatti:

1. Una Iena con un collaboratore di un piccolo giornale locale, da noi fotografati, sono entrati in incognito in cappella insieme agli altri fedeli e vi sono restate fino alla fine del rosario. Poi, all’inizio della catechesi, sono uscite con le loro gambe, probabilmente per dare informazioni ai loro “amici” che aspettavano di fuori. La loro presenza in cappella è stata ignorata e nessuno li ha disturbati.


2. Poco dopo, altre due Iene con la telecamera hanno cercato di penetrare in cappella evitando di usare l’entrata aperta al pubblico. Sono invece scese per le scale di sicurezza esterne e hanno cercato di forzare dall’esterno le porte di sicurezza. (Fatto verificabile guardando a partire dal minuto 3:45 il video a questo link)

3. Resosi conto di quanto stava per accadere, il servizio d’ordine ha invitato cortesemente le Iene ad allontanarsi in quanto stavano disturbando la gente riunita in cappella. DA UN FILMATO IN NOSTRO POSSESSO NON RISULTA NESSUNA AGGRESSIONE : si vede il tentativo di abbassare una telecamera all’operatore delle iene, ma non c’è stato nessun trattenimento a terra e non è stato in alcun modo picchiato il Sig. Mauro Casciari, contrariamente a quanto è stato affermato prima, durante e dopo la trasmissione delle Iene.

Questo è quanto accaduto.

Redazione di Radio Maria



Che dire, povera Italia.

mercoledì 10 febbraio 2016

10 Febbraio, #GiornodelRicordo in memoria delle vittime delle #foibe e dell’esodo giuliano dalmata. La storia (II).


'Giorno del Ricordo', in memoria delle vittime delle foibe. Il 10 febbraio è il giorno del ricordo di una pagina tra le più cupe della storia contemporanea, avvolta a lungo nel silenzio e nel buio, come le tante vittime, inghiottite nelle cavità carsiche, le cosiddette foibe, per volere del maresciallo Tito e dei suoi partigiani, in nome di una pulizia etnica che doveva annientare la presenza italiana in Istria e Dalmazia. Fra il 1943 e il 1947 oltre 10 mila persone furono gettate vive o morte in queste gole, un genocidio che non teneva conto di età, sesso e religione, riconosciuto ufficialmente nel 2004, con la legge numero 94 che istituì la «Giornata del Ricordo», in memoria dei martiri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.

Dove si trovano le foibe?




Cosa è una foiba?


Il termine "foiba" è una corruzione dialettale del latino "fovea", che significa "fossa"; le foibe, infatti, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua; possono raggiungere i 200 metri di profondità. Esse sono degli abissi verticali e cupi, che si perdono nel silenzio delle profondità terrestri, caverne immense. In Istria sono state registrate più di 1.700 foibe. (Nella foto accanto una foiba istriana).

Come sono state utilizzate le Foibe?

 Le foibe furono utilizzate in diverse occasioni e, in particolare, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale per infoibare ("spingere nella foiba") migliaia di italiani, antifascisti e fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista slavo propugnato da Josip Broz meglio conosciuto come "Maresciallo Tito". A riguardo è interessante riportare quanto affermato da Kardelj (vice di Tito) il quale poté affermare: "ci fu chiesto di far andar via gli Italiani con tutti i mezzi e così fu fatto". Nessuno sa quanti siano stati gli infoibati: alcune stime parlano di 10-15.000 sfortunati.    




Come venivano eliminate le vittime di titini?   

Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba; qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il fil di ferro. I massacratori, nella maggior parte dei casi, sparavano al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. Inoltre era consuetudine degli stessi aguzzini lasciare un cane nero sui corpi dei morti, perché un’antica credenza popolare slava, pensava che in questo modo le anime dei defunti non avrebbero trovato pace neppure nell’aldilà.
Infine, per cancellare le tracce di quanto avvenuto, alcuni soldati lanciavano delle bombe all’interno della foiba, riducendo in polvere i resti delle vittime.

Chi erano le vittime delle Foibe?
           
Italiani di ogni estrazione: civili, militari, carabinieri, finanzieri, agenti di polizia e di
custodia carceraria, fascisti e antifascisti, membri del comitato di liberazione nazionale. Contro questi ultimi ci fu una caccia mirata, poiché in quel momento rappresentavano gli oppositori più temuti dalle mire annessionistiche di Tito. Furono infoibati anche tedeschi vivi e morti e sloveni anticomunisti. Quante furono le vittime delle Foibe non si sa perché in quel clima di furore omicida e di caos era impossibile tenere la contabilità delle esecuzioni. Si calcola, però, che gli infoibati furono alcune migliaia. Più precisamente si è calcolato che gli infoibati si aggirino tra i dieci o quindici mila.  Clicca due volte sull'immagine, per ingrandirla.

Quando avvenne l'infoibamento

Dopo avere subito umiliazioni corporee e psicologiche di vario genere, molto italiani furono gettati nelle foibe per cancellare definitivamente la loro presenza.
I massacri si verificarono in due momenti: il primo, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando si scatenarono vendette e rancori mai sopiti dopo 20 anni di italianizzazione forzata; il secondo, molto più grave per numero delle vittime, nella primavera del ’45, quando le truppe titine occuparono la Venezia Giulia, la Dalmazia, Trieste e parte del Friuli.


E gli alleati stavano a guardare …



I 40 tragici giorni di Trieste   Finita la guerra, Trieste e i territori circostanti si autoliberarono e per un brevissimo periodo quei luoghi rimasero liberi da ogni forma di governo.
Ben presto, però, Trieste rientrò nell’orbita espansionistica di Tito, che desiderava annetterla all’impero Jugoslavo.
Tale sogno rappresentava un serio pericolo per le potenze vincitrici, che vedevano l’ingrandimento del potere di Tito e una possibile minaccia Comunista nei paesi occidentali.
Inoltre, Trieste interessava agli Alleati, poiché, grazie alla sua posizione geografia, essa rappresentava un buon corridoio di passaggio (per rifornire le truppe stanziatesi in Austria) tra l’Adriatico e la nazione d’oltre alpe. Pertanto nacque una corsa tra l’esercito di Tito e quello di Churchill per la conquista della città.
Il 1° Maggio del 1945, a guerra finita, entrarono per primi gli slavi, che manifestarono apertamente di non gradire l’ingresso delle forze britanniche in quello che consideravano loro territorio. Solo dopo diverse e segrete trattative (che si ripercuoteranno in modo negativo sulla popolazione triestina per l’inettitudine degli Alleati) il 2 maggio nel tardo pomeriggio Freyberg, comandante delle truppe neozelandesi, poté fare il suo ingresso in città. Tuttavia, malgrado la presenza delle forze alleate, la popolazione triestina subì le angherie dell’esercito jugoslavo. A nulla valsero le implorazioni e le richieste d’aiuto della gente a Freyberg affinché intervenisse, perché questi rispondeva che gli jugoslavi gli avevano consentito di entrare a Trieste come “ospite” e come “ospite” si sarebbe comportato fino a nuovo ordine.

L’esercito degli Alleati dovette persino cedere alle richieste dei titini, i quali chiedevano la consegna di 2700 soldati tedeschi che, arrendendosi, si erano consegnati prigionieri di guerra agli Alleati. L’illusione durò poco tempo perché di quei 2700 prigionieri nessuno fece ritorno.


Fonte: https://sites.google.com/site/didatticasecondaria/foibe



Ecco il link per la prima parte della storia delle Foibe: 10 Febbraio, #GiornodelRicordo in memoria delle vittime delle #foibe e dell’esodo giuliano dalmata. La storia (I).

giovedì 4 febbraio 2016

La fine di Hong Kong, non ci sarà più libertà senza che la stessa arrivi anche per la Cina.

HONG KONG – CINA
La fine di Hong Kong è arrivata con 32 anni di anticipo
articolo di Gianni Criveller per Asia News

La scomparsa di Lee Bo e di altri quattro editori, che hanno pubblicato libri critici verso il Partito comunista cinese, sta facendo crollare l’oasi di libertà che era il Territorio. Crescono il controllo, la paura e l’autocensura. Le strane “visite” di studiosi a attivisti e missionari stranieri. Hong Kong, un deserto culturale. Intanto in Cina è più violenta la repressione contro avvocati, cristiani protestanti e cattolici, musulmani uighuri, buddisti tibetani. P. Wei Heping, martire come Jerzy Popiełuszko. Non ci sarà più libertà a Hong Kong, senza che la stessa libertà arrivi anche per la Cina.

Hong Kong
È la fine di Hong Kong. Hong Kong, come l’abbiamo conosciuta e abitata finora, non c’è più. La Hong Kong del “un Paese – due sistemi” doveva durare almeno 50 anni, ha resistito solo per 18. La fine è arrivata con ben 32 anni in anticipo. La data di morte è il 30 dicembre 2015, poco dopo le 18. Alcuni testimoni avrebbero visto degli uomini costringere l’editore Lee Bo ad entrare in un furgone. Da allora non si sa più nulla di lui (v. foto). La moglie, disperata, ha ricevuto una telefonata da lui in cui, usando in modo innaturale la lingua mandarina, diceva di trovarsi in Cina, e che doveva assistere le autorità in un’indagine. Nel mese di ottobre altri tre piccoli editori erano spariti mentre si trovavano in Cina. Una quarta persona, pure piccolo editore di Hong Kong, era sparita mentre si trovava in Thailandia. Cinque editori di Hong Kong spariti nel nulla, come succede solo nei peggiori regimi fascisti, comunisti e militari. Avevano in comune la produzione e vendita di libri critici verso il partito comunista cinese. Libri che andavano a ruba proprio tra i turisti dalla Cina in visita a Hong Kong. E avevano in preparazione un nuovo libro, critico e forse salace, sul presidente Xi Jinping.

In passato ho scritto tante volte che a Hong Kong non c’è la democrazia, ma c’è almeno la libertà. Oggi non lo posso più affermare. Residenti di Hong Kong erano già stati imprigionati per motivi politici mentre erano in viaggio in Cina. Ma le operazioni di sicurezza politica cinese non si erano mai spinte fino all’interno di Hong Kong. Come ha giustamente osservato il leader democratico Lee Cheuk-yan, il sequestro di Lee Bo è quanto di peggio la gente di Hong Kong possa temere. Sparire nel nulla, nelle mani di agenti cinesi. La gente si è sempre sentita sicura a Hong Kong. Ora non lo è più. La polizia afferma che non c’è nessuna registrazione che dimostri che Lee Bo abbia passato la frontiera. Il governo di Hong Kong dice di non saperne nulla. C’è da credergli, dato che non conta niente. Gli agenti segreti non chiedono autorizzazione per procedere contro i dissidenti, né usano procedure legali. Le autorità della Cina tacciono. Anzi, qualcosa hanno ammesso: Lee Bo, pur avendo un passaporto britannico, rimane un cinese. Singolare concezione delle regole internazionali.

Lee Bo, editore scomparso ad Hong Kong
Le conseguenze del misterioso sequestro sono devastanti. I libri critici verso il regime cinese sono stati tolti dalle librerie della città. Yu Jie, dissidente cinese, che vive peraltro negli Usa, ha annunciato che Open, una casa editrice di Hong Kong, ha rinunciato a pubblicare il suo libro, già ultimato, sul leader Xi Jinping. L’editore capo di Open Magazine, la principale rivista-osservatorio di Hong Kong sulla Cina, ha annunciato che emigrerà negli Stati Uniti nelle prossime settimane. Chi si è esposto ha paura. Hong Kong era stata dispregiativamente descritta, dall’interno della Cina, come un ‘deserto culturale’. Era un’affermazione ingiusta. Ma ora sta diventando davvero un deserto culturale e conformista. Attraverso l’autocensura, con il minimo sforzo, il regime di Pechino ottiene risultati strepitosi.

Questa non è l’inizio della fine. È la fine. L’inizio è stato quando, ormai da qualche anno, non si è voluto in nessun modo dare vita al processo democratico per rispondere alla richiesta della popolazione e alle indicazioni della Basic Law, che regola la vita costituzionale di Hong Kong. L’agonia di Hong Kong durerà ancora qualche anno. Il mondo editoriale è già in mano ad amici del potere, compreso, purtroppo, il quotidiano in lingua inglese South China Morning Post. I giornalisti critici sono stati esclusi uno dopo l’altro, ma senza colpi di scena, e in poco tempo la soffice epurazione sarà completata. Verrà il momento in cui anche al mondo della scuola e poi a quello delle religioni verrà chiesto l’allineamento. È questione di tempo.

Nel frattempo già da qualche anno alcuni residenti di Hong Kong impegnati civilmente, compresi alcuni missionari stranieri, ricevono visite non richieste di gentili “studiosi” cinesi. Vengono fatte tante domande, richiesti punti di vista e informazioni. I loro modi sono cortesi e generosi, ma il senso di tali visite è purtroppo, fin troppo ovvio.

Le cose, in genere, non sono più complicate di quanto appaia. Basta aver occhi per vedere. Sotto il leader Xi Jinping il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa stanno drammaticamente facendo dei passi indietro. In Cina continua l’arresto, la sparizione o altri provvedimenti restrittivi contro i giornalisti. Salgono a 49 i giornalisti arrestati; mentre i giornalisti stranieri scomodi sono espulsi, l’ultimo caso riguarda la francese Ursula Gauthier, che aveva scritto un articolo circa la repressione subita dalla popolazione Uighur nella Cina occidentale. Purtroppo anche gli avvocati per i diritti umani, che costituivano una vera speranza, sono presi di mira. Più di 700, tra avvocati e collaboratori, sono stati sequestrati, arrestati, o impediti di operare.

Dal 2009 ben 145 fedeli tibetani si sono immolati con il fuoco in protesta contro la politica oppressiva in Tibet. Una tragedia sostanzialmente ignorata. Anche i cristiani soffrono. Più di mille croci sono state demolite, e numerose chiese. E soprattutto c’è il triste e inquietante caso di Wei Heping, un giovane e coraggioso prete della comunità cattolica sotterranea, trovato morto nel fiume Fen nello Shanxi in circostanze gravemente sospette. La tragedia è avvenuta lo scorso 7 novembre 2015. In un primo tempo, la polizia ha sbrigativamente classificato il caso come suicidio. Ma non è così. Da parte di molti c’è la convinzione che si tratti di una morte violenta, causata dal suo influente attivismo tra i giovani e in internet. Molti fedeli lo considerano un martire. Se così fosse, sarebbe il primo prete ucciso in Cina negli ultimi 25 anni. Un caso che fa pensare al prete polacco Jerzy Popiełuszko, ucciso da agenti governativi nel 1984, oggi beato. A Hong Kong Wei Heping è stato ricordato da centinaia di fedeli lo scorso 30 dicembre, proprio nelle stesse ore in cui Lee Bo veniva deportato in Cina.

Un amico giornalista non condivide del tutto il mio pessimismo circa le sorti di Hong Kong. Dice che Hong Kong ce la farà. Spero di cuore che abbia ragione. Il mio non è un pessimismo malinconico, ma una semplice lettura dei fatti. Le cose sono quasi sempre come appaiono, e finiscono quasi sempre come si prevede. Gli ultimi avvenimenti ci hanno mostrato che il destino di Hong Kong e della Cina è ormai lo stesso. Non ci sarà più libertà a Hong Kong, senza che la stessa libertà arrivi anche per la Cina.

venerdì 22 gennaio 2016

Geopolitica, la #Mongolia, schiacciata tra Russia e Cina sceglie il Giappone (e la Germania).

MONGOLIA
Schiacciata tra Russia e Cina, la Mongolia sceglie il Giappone
Alicia J. Campi

Il governo di UlaanBaatar esce dall’isolamento diplomatico internazionale e si propone come “perennemente neutrale” per evitare le numerose frizioni della regione. Si smarca dalle avance di Mosca e Pechino legando con Tokyo e Berlino ed espandendo i suoi mercati energetici. Nel frattempo, però, apre le sue steppe ai prodotti russi e cinesi per divenire il cuore del trasporto eurasiatico. Un'analisi per gentile concessione della Jamestown Foundation. Traduzione a cura di AsiaNews.


Washington (AsiaNews) – Nel corso dell’anno appena concluso, la Mongolia ha lavorato per istituzionalizzare il suo concetto “trilaterale” in politica estera. Questo prevede che la repubblica nord-asiatica si inserisca nel crescente rapporto fra Russia e Cina basato su energia, trasporti e cooperazione per lo sviluppo regionale. I successi più evidenti di questa filosofia sono stati gli incontri a tre fra i presidenti e i primi ministri dei Paesi coinvolti: entrambi i meeting sono avvenuti nel 2015.

Eppure la politica estera mongola non si limita a un avvicinamento graduale verso Mosca e Pechino. Nel corso dell’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente di UlaanBaatar Tsakhia Elbegdorj ha annunciato all’improvviso che la sua nazione è intenzionata a ottenere la qualifica di “neutralità permanente” dall’Onu.

Questa dichiarazione può essere interpretata come una manovra strategica da parte della Mongolia, che vuole evitare di essere vista come sostenitrice (e tanto meno vuole evitare di trovarsi incastrata) delle diverse e controverse azioni estere di Cina e Russia. Inoltre vuole sfilarsi dalle pressioni russe per l’ingresso nell’Unione economica eurasiatica (guidata da Mosca) e da quelle cinesi per l’adesione alla Shanghai Cooperation Organization.

In tutto questo, e in maniera molto significativa, a metà ottobre 2015 la Mongolia ha ospitato due delegazioni di altissimo livello da Germania e Giappone, i cosiddetti “terzi vicini”.

Il presidente tedesco Joachim Gauck ha visitato UlaanBaatar dal 14 al 16 ottobre per rinforzare i rapporti della partnership bilaterale fra Germania e Mongolia. In quell’occasione sono stati firmati due importanti memorandum d’intesa: un accordo per il commercio di concentrato di rame fra la mongola Erdenes Tsagaan Suvraga e la tedesca Aurubis e un altro per la costruzione di un impianto di estrazione e di raffinamento del petrolio fra a Mongol Alt Corporation, la Ferrostaal e la Euro Khan LLC. Alla Tsaagan Suuvarga sono stati garantiti 1.030 milioni di dollari americani in tre fasi, da spalmare in 18 anni: 334,4 milioni sono già stati investiti, mentre gli altri 686,6 milioni verranno dalla International Bank of Germany e da altri finanziatori [Mongolia.gogo.mn, 19 ottobre; Mongol Messenger, 16 ottobre].

Qualche giorno prima della visita di Gauck, inoltre, il ministero mongolo dell’Energia e la ThyssenKrupp (colosso tedesco indicato dal governo di Berlino) hanno firmato un accordo per la creazione di un’industria “green” per processare il gas metano dal carbone, come sancito nel corso dell’anno dal Parlamento di UlaanBaatar. La ThyssenKrupp sta progettando lo studio di fattibilità e addestrando il personale, mentre il lato mongolo si occupa delle licenze, dell’assistenza finanziaria e della selezione di un appaltatore mongolo per il progetto [Ubpost.mongolnewsmn, 18 ottobre]. Dopo la partenza del leader tedesco, infine, i due lati hanno discusso il finanziamento per il progetto di riabilitazione della centrale energetica Darhan-Erdenet e del progetto di trasmissione ad alto voltaggio UlaanBaatar-Mandalgobi [Montsame.mn, 20 ottobre].

Il primo ministro giapponese Shinzo Abe si è invece fermato in Mongolia durante il viaggio verso le cinque nazioni dell’Asia centrale. La sua visita ufficiale è durata soltanto 4 ore, lo scorso 22 ottobre: Abe ha incontrato il capo dello Stato nella sua residenza, restituendo la visita fatta da Elegdorj a Tokyo lo scorso anno. Il governo mongolo ha spiegato che lo scopo della rapidissima visita era discutere come accelerare la messa in atto dell’Accordo di partenariato economico (Ape) stabilito fra le due nazioni. Abe ha dichiarato che la Mongolia “dovrebbe adottare politiche di sviluppo auto-sufficienti, campo in cui il Giappone è sempre desideroso di aiutare” [Mongolia.gogo.mn, 23 ottobre]. È comunque la seconda visita del premier nipponico in Mongolia, dopo quella avvenuta nel marzo 2013.

I commentatori mongoli ritengono che la visita-lampo sia un segnale importante del rinnovato interesse giapponese per una maggiore cooperazione economica. I due Paesi hanno sei campi di cooperazione già ben sviluppati.

1) L’accordo bilaterale Epa, della durata di 10 anni, che entrerà in vigore proprio nel 2016. Il documento permetterà a 8.100 prodotti mongoli l’ingresso in Giappone a prezzo scontato; circa 5.900 categorie di prodotti nipponici otterrà lo stesso privilegio in Mongolia.

2) Dopo la visita di Abe, l’ambasciatore Takenori Shimizu ha firmato un accordo fra i due governi con il primo ministro Chimed Saikhanbileg per iniziare a cooperare sulla ferrovia East Tsankhi, che conduce all’enorme giacimento carbonifero di Tavan Tolgoi.

3) Il Giappone presterà 200 milioni di yen (circa 1,6 milioni di dollari) alla Mongolia per ridurre il deficit del budget statale originato dal sostegno alle piccole e medie imprese. Non è chiaro però quali siano le condizioni del prestito e i tassi di interesse.

4) I lavoratori del settore edile mongolo saranno addestrati e poi assunti per lavorare ai progetti di sviluppo e alle attività edilizie collegate ai Giochi olimpici di Tokyo 2020.

5) Giappone e Mongolia si sosterranno in maniera reciproca all’interno delle organizzazioni internazionali, come avvenuto per l’elezione di UlaanBaatar all’interno del Consiglio dei diritti umani dell’Unicef e la candidatura di Tokyo a membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

6) La Mongolia continuerà a operare come intermediario fra Giappone e Corea del Nord sulla questione dei cittadini nipponici rapiti dal regime dei Kim [Mongolia.gogo.mn, 23 ottobre].

In effetti, uno degli immediati frutti della visita di Abe è stata l’elezione della Mongolia al Consiglio per i diritti umani dell’Unicef per il 2016-2018. L’elezione è avvenuta il 28 ottobre 2015 [mfa.gov.mn, 29 ottobre]. I funzionari mongoli hanno fatto lobby per mesi alla missione Onu di New York, e riconoscono che il Giappone è stato proprio uno dei maggiori sostenitori della loro campagna.

Nel corso di una conferenza stampa, il ministro degli Esteri Lundeg Puresuren ha annunciato l’approvazione di un progetto di collaborazione sulla protezione dell’ambiente, sui servizi di gestione di un nuovo aeroporto che sarà costruito in Mongolia grazie a un prestito giapponese, e su un progetto energetico regionale congiunto. Nel maggio 2015, Abe ha promesso un investimento di 110 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni in progetti di sviluppo delle infrastrutture in Asia. L’investimento contribuirà alla costruzione di un impianto di gassificazione del carbone [Mongolia.gogo.mn, 23 ottobre].

Da notare anche l’accordo siglato dai ministeri mongoli delle Finanze, Salute, Sport, Istruzione e Scienze con l’ambasciata nipponica e l’Asian Development Bank. Il testo garantisce 2 milioni di dollari dal Fondo giapponese per la riduzione della povertà, che andranno per migliorare i servizi sanitari per le fasce vulnerabili della popolazione e per riformare il settore dell’istruzione [Ubpst.mongolnews.mn, 27 ottobre].

Nei media giapponesi, la visita di Abe in Mongolia è stata descritta come l’ennesima prova della sua “inusuale ma profonda vicinanza con questa nazione, che in parte mira a rispondere alla decennale domanda su che fine abbiano fatto i cittadini giapponesi rapiti dalla Nord Corea”. Mentre la Mongolia è definita “impegnata a ricalibrare” i suoi rapporti con la Corea del Nord attraverso un rafforzamento delle relazioni economiche con il Giappone [Nikkei.com, 24 ottobre].

Invece i commentatori russi leggono in questa visita un significato militare e geostrategico. La visita, dicono, “dimostra la crescente importanza di controllare il territorio mongolo per le potenze mondiali”. Come prova, gli editorialisti russi indicano la conferenza congiunta di Abe con i suoi ospiti mongoli, nel corso della quale il premier giapponese ha ringraziato il governo di UlaanBaatar per aver sostenuto le nuove leggi sulla difesa di Tokyo. Inoltre, ha chiesto il coinvolgimento degli Stati Uniti per sviluppare ancora di più la partnership strategica con la Mongolia [Journal-neo.org, 6 novembre; mofa.gov.jp 24 ottobre 2014].

Schiacciata fra Cina e Russia, la Mongolia ha sviluppato una strategia “della steppa” per posizionarsi come corridoio di transito nel cuore dell’Eurasia e facilitare l’integrazione di infrastrutture e commercio fra i due grandi Paesi confinanti. Ma allo stesso tempo sta utilizzando la politica “del terzo vicino” con Giappone e Germania per espandere i suoi partner commerciali, evitando la “steppa”, l’isolamento e l’emarginazione.


Fonte: Asianews.it

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