lunedì 28 dicembre 2015

Antonino Zichichi: "le previsioni climatiche sul lungo periodo sono inattendibili." Così smonta i catastrofismi. (di Nicola Porro)

"Clima tra 10 anni? Incalcolabile" 
Così Zichichi smonta i catastrofisti
Il presidente della federazione mondiale degli scienziati è scettico: 
"Inattendibili le previsioni sul lungo periodo"
di Nicola Porro
Mentre lo intervistiamo è nel suo studio di Ginevra, impegnato al Cern. Antonino Zichichi, presidente della Wfs (World federation of scientist) e cioè della federazione degli scienziati mondiali, ha un atteggiamento scettico sulla pomposa riunione dei capi di Stato a Parigi sui problemi dell'ambiente.

O meglio il suo scetticismo è rivolto alle previsioni drammatiche fatte sul riscaldamento del pianeta. Zichichi non entra nel merito, ma critica il metodo, il modo in cui si pretende di sapere cosa avverrà al pianeta tra dieci o addirittura cinquanta anni.

Eppure, gli chiediamo, esisterà un modo rigorosamente scientifico di trattare l'evoluzione del clima?

«Per descrivere in modo matematicamente rigoroso l'evoluzione del clima, sono necessarie tre equazioni differenziali non lineari fortemente accoppiate. Differenziali vuol dire che è necessario descrivere l'evoluzione istante per istante nello spazio e nel tempo (nel dove e nel quando). Non lineari vuol dire che l'evoluzione dipende anche da se stessa. Esempio: il mio futuro dipende anche da me stesso. Fortemente accoppiate vuol dire che l'evoluzione descritta da ciascuna equazione ha enormi effetti anche sulle altre.Questo sistema di tre equazioni non ha soluzione analitica; il che vuol dire nessuno riuscirà mai a scrivere l'equazione dell'evoluzione del clima. L'unica strada è costruire modelli ad hoc. Un modello matematico non è la verità scientifica ma l'equivalente del dire È così perché l'ho detto io; non a parole, ma scrivendo formule che obbediscono a ciò che io penso sia la soluzione.

Ma Lei mi sta dicendo che non si possono fare previsioni?

«Le sto dicendo che le previsioni hanno senso solo a breve termine. Quelle sul tempo di domattina hanno margini di errori bassissimi, quelle tra 15 giorni sono inattendibili. Si figuri una previsione sul clima a dieci anni. Quello che funziona bene è il cosiddetto «now casting»; lo abbiamo scoperto noi con un progetto pilota della Wfs in Cina studiando il Fiume Giallo che causava migliaia di morti per le previsioni a lungo termine che davano troppo spesso falsi allarmi.La gente ignorava gli allarmi restando a casa. Fino a quando noi abbiamo introdotto le previsioni a breve termine: «now casting». Ecco perché il presidente Den Xiao Ping mi ricevette a Pechino come fossi un capo di Stato e mi disse che avrebbe sostenuto l'istituzione di un laboratorio mondiale per una scienza senza segreti e senza frontiere come facciamo al Cern e a Erice nel Centro di Cultura Scientifica che porta il nome del pupillo di Fermi, Ettore Majorana».

Professore, Lei nega che ci siamo delle emergenze ambientali?

«Io mi limito a dire che ci sono 72 emergenze planetarie che a differenza di quelle climatiche sono verificabili, certe, scientificamente provabili. Una di queste ad esempio e riguarda l'oggi, è l'acqua. Servirebbero molte risorse per renderla disponibile e pulita per milioni di persone come ha ricordato Papa Francesco».

Non negherà che l'uomo inquina e con ciò potrebbe compromettere il nostro futuro, ma anche il nostro presente.

«Si facciano leggi che puniscano severamente l'inquinamento senza confondere i veleni con le problematiche climatologiche, come sono CO2 ed effetto serra. Bisogna demonizzare i veleni che vengono impunemente versati nell'atmosfera.L'anidride carbonica (CO2) è cibo per le piante. Se nell'atmosfera non ci fosse stata CO2 non sarebbe nata la vita vegetale. E siccome la vita animale viene dopo quello vegetale noi non saremmo qui. L'effetto serra non è un nostro nemico. Se non ci fosse l'effetto serra la temperatura di questo satellite del sole sarebbe 18 gradi sotto zero. L'effetto serra ci regala 33 gradi».



Fonte: il Giornale

giovedì 24 dicembre 2015

La data del Natale non è «inventata». Perché la Tradizione è molto più precisa di quanto pensano fior di esegeti.

La data del Natale non è «inventata». 
Perché la Tradizione è molto più precisa di quanto pensano fior di esegeti
di Ruggero Sangalli


Il Natale è una festa molto strana. Tutti si scambiano regali, ma in genere l’unico al quale molti non preparano nessun dono è il vero festeggiato. Natale è il compleanno di Gesù. Non solo: è l’evento che ha prodotto un riferimento cronologico al calendario, prima e dopo l’anno dell’Incarnazione.

Stiamo infatti per completare il 2015° anno “dopo Cristo” del computo di Dionigi, che in effetti fu abbastanza preciso: gli si può solo imputare un errore giustificabilissimo di un anno in meno, non certo di sei o sette come sproloquiano molti esperti, esegeti inclusi.

E’ lecito qualche dubbio anche sulla data esatta del 25 dicembre: in effetti c’è chi vi ha visto un riferimento al solstizio d’inverno (ma allora il giorno 25 non andrebbe bene), chi ad altre feste pagane (ma il “Sol Invictus” fu festeggiato dai Romani il 25 dicembre solo dal III secolo dopo Cristo), chi ai nove mesi dopo il 25 marzo (considerato prima la data della creazione e poi dell’annunciazione), chi ancora come una reminescenza del 25 di Kislev, inizio della festa delle luci, che ben si addice al venire della Luce del mondo!
L’ipotesi più sensata sembra l’ultima: per quanto difficilmente sovrapponibile a una data fissa in un calendario solare, riferendosi -come per la Pasqua- a un calendario scandito dalla luna. Lo è anche perché tutte le date più significative della vita terrena di Gesù coincidono con le festività ebraiche e questa (dedicazione del tempio che fu profanato) ben si addice al “tempio di Dio”, di Gesù, Nuovo Adamo.

Pur lasciando qualche margine di incertezza sul giorno esatto, è tuttavia accertato che si trattasse del periodo in cui festeggiamo, a fine anno, ed è possibile stabilire con precisione (attraverso almeno una dozzina di solidi indizi) anche l’anno: il 2 a.C.

La Vergine Maria, mamma di Gesù, all’epoca aveva già compiuto quindici anni. Nove mesi prima, ancora quattordicenne, ricevette l’annuncio dell’Angelo. Maria sarebbe quindi nata nel 17 a.C. e la sua Immacolata concezione risale (di altri nove mesi anteriore) alla fine del 18 a.C.

Giuseppe non era anziano, ma poteva avere una trentina d’anni, età “giusta” per un isreaelita per dedicarsi alle “cose sacre” come era un matrimonio. La differenza di età tra i due, di una quindicina d’anni, non giustifica l’iconografia di un Giuseppe con la barba bianca.

L’età di Gesù

Per fissare l’età di Gesù si possono circoscrivere gli anni possibili attraverso alcuni punti fermi:

- dalla storia dei Romani sappiamo che Ponzio Pilato fu prefetto della Giudea e fu in carica dal 26 d.C. al 36 d.C.

- dal vangelo di San Luca sappiamo che la predicazione di Giovanni prese avvio nel XV di Tiberio, cioè tra la metà di settembre del 28 d.C. e la metà di settembre del 29 d.C.

- Gesù fu battezzato quando Giovanni era già abbastanza famoso ed era seguito da dei discepoli, alcuni dei quali saranno i primi a  mettersi alla sequela di Gesù.

- dal vangelo di San Giovanni sappiamo che la “vita pubblica” di Gesù è racchiusa in tre Pasque ebraiche: da quella a ridosso del miracolo di Cana, a quella decisiva per la redenzione.

- dai quattro vangeli sappiamo con certezza che Gesù fu crocifisso di venerdì, poco prima che iniziasse la festa di pasqua, che gli Ebrei celebrano a partire dal giorno 15 nisan.

- dalle tradizioni ebraiche sappiamo che il giorno in cui si immolavano gli agnelli era il 14 nisan; la pasqua ebraica coincide con la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera.

- nel calendario ebraico, calendario lunare, il 14 nisan coincide con la luna piena; in ogni calendario considerato i giorni della settimana sono sette e non ne è mai stato saltato uno…

- dai dati della NASA sappiamo che il 14 nisan coincidente con un venerdì ci fu (dopo il 26 e fino al 36 d.C.) soltanto negli anni 33 e 36 d.C.

- di San Paolo è fissabile l’incontro con il procuratore Gallione, inviato a Corinto nell’anno della XXVI acclamazione dell’imperatore Claudio concomitante con la sua XII acclamazione tribunizia, cioè nella primavera dell’anno 51 d.C., quando Paolo era già da un anno e mezzo a Corinto. Il concilio di Gerusalemme è quindi del 49 d.C. e i 14 anni descritti nella lettera ai Galati anticipano la conversione ad almeno il 35 d.C. (in realtà avvenne già all’inizio del 34 d.C.)

- Gesù lasciò questa terra ascendendo al cielo, quaranta giorni dopo la sua resurrezione avvenuta a inizio aprile, nel maggio del 33 d.C.

- le tre Pasque descritte nel vangelo di San Giovanni sono quelle del 31, del 32 e del 33 d.C.

- Gesù entrò in scena (Luca scrive “trentenne”), dopo il battesimo al Giordano, già nel 30 d.C.

- questo porta la data di nascita al 2 a.C. (l’anno zero non esiste e si passa dal 31/12/1 a.C. al 1/1/1 d.C.), durante la festa delle luci (Encenie) celebrata per otto giorni dal 25 del mese di kislev.

- Gesù nacque all’epoca in cui nascono gli agnelli, fine anno, durante una festa nota per la luce e per la gioia (si legga l’inizio del libro dei Maccabei), festa di dedicazione del tempio.

- Gesù alla sua morte/resurrezione aveva 33 anni e quattro mesi di età, come ha sempre sostenuto la tradizione.

Un interessante spunto cronologico deriva dai due scritti lucani, nel cui incipit in entrambi i casi l’evangelista Luca si rivolge a un illustre Teofilo. Stesso interlocutore, stesso periodo? E’ vero per la prima parte degli Atti, che sono in continuità con il Vangelo, riprendendo con l’Ascensione di Gesù i racconti della settimana santa. Dal capitolo 11 degli Atti Luca scrive in prima persona: è quindi un testo aggiuntivo a quello preesistente, necessariamente (il secondo) scritto attorno al 60 d.C., ma comunque molto dopo il vangelo e i primi capitoli degli Atti degli apostoli che risalgono -al più tardi-  all’inizio degli anni 40 del primo secolo.  Dal 47 d.C. e fino al 59 d.C. il testo degli Atti si interseca perfettamente con quelle lettere paoline che furono scritte in quegli anni.




Fonti:

mercoledì 15 aprile 2015

#PapaFrancesco: Armeni, "fu il primo genocidio del Novecento"

Armeni, "fu il primo genocidio del Novecento"
di Marco Respinti (dal sito La Nuova Bussola Quotidiana)



Le parole pronunciate dal Papa sul genocidio degli armeni hanno provocato una dura reazione da parte delle autorità turche. Il nunzio della Santa Sede ad Ankara Antonio Lucibello è stato convocato dal Ministero degli Esteri per esprimere il «disappunto» e la protesta del governo. Ankara ha poi richiamato il proprio ambasciatore presso il Vaticano.

Le parole e i gesti di un pontefice ‒ cioè del pontefice ‒ non sono mai solo di circostanza, nemmeno quando sono le circostanze a imporlo; ma le parole pronunciate e i gesti compiuti da Papa Francesco domenica 12 aprile nel saluto prima della Messa in San Pietro per i fedeli di rito armeno sono di una gravitas eccezionale. Proclamando dottore della Chiesa l’armeno san Gregorio di Narek (951-1003), alla presenza del presidente dell’Armenia Serž Sargsyan, del Patriarca e Catholicos di tutti gli armeni Karekin II, del Catholicos della Grande Casa di Cilicia Aram I e del Patriarca di Cilicia degli armeni cattolici Nerses Bedros XIX, il pontefice ha infatti ricordato solennemente il Metz Yeghérn (“Il grande male”), ovvero l’olocausto di 1 milione e 400mila cristiani armeni, compiuto dai Giovani Turchi tra 1915 e 1923 a pochi giorni dal centenario esatto, la notte tra il 23 e il 24 aprile, dell’inizio del massacro.

Non ha domandato il permesso a nessuno, il Papa, e senz’alcun giro di parole ha definito «genocidio» quell’eccidio. Lo ha fatto ben due volte in un messaggio in sé davvero breve. Una prima volta denunciando quella «sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino», in cui viviamo oggi, ovvero tempi di colossale menzogna e di cristianofobia davvero senza precedenti; e una seconda utilizzando le parole usate nella Dichiarazione comune sottoscritta nella cattedrale di Etchmiadzin dal Papa della Chiesa Cattolica san Giovanni Paolo II (1920-2005) e del Patriarca e Catholicos di tutti gli armeni Karekin II il 27 settembre 2001 nel 1700° anniversario della proclamazione del cristianesimo quale religione dell’Armenia: «il primo genocidio del XX secolo».

Attraversando come un rasoio le dispute degli storici e bypassando le controversie dei filologi, Francesco si è assunto la responsabilità culturale (e, da Papa, non solo quella culturale) di definire così il massacro dei cristiani armeni, per di più chiamando a testimone e vincolo il Magistero immutabile della Chiesa qui nella forma delle parole di san Giovanni Paolo II.

“Genocidio”, infatti, è un termine pesante, scomodo, addirittura tabù. Da usare con il contagocce, e giustamente. Perché non è mero sinonimo di “massacro”, ma un che di qualitativamente diverso. “Genocidio” è un neologismo, coniato ad hoc per supplire alle carenze della lingua di fronte a quel che i nazionalsocialisti fecero agli ebrei: che non era un eccidio, come i tanti purtroppo narratici dalla storia, ma il progetto cosciente e preciso di annientare per sempre un’intera porzione del genere umane e la sua relativa messa in atto. Non esisteva il vocabolo e l’avvocato polacco Raphael Lemkin (1900-1959) lo creò nel 1944 lavorando di cesello con il sostantivo greco genos e il latino genus, “popolo”, “stirpe”, “famiglia”, “parentela”. “Genocidio” ha dunque un preciso valore legale definito da un criterio oggettivo che invece “massacro” ed “eccidio”, per quanto gravi, non hanno: lo documenta acribicamente Carmelo Domenico Leotta in Il genocidio nel diritto penale internazionale. Dagli scritti di Raphael Lemkin allo Statuto di Roma (Giappichelli, Torino 2013). Perché vi sia “genocidio” non è sufficiente che un gran numero di vittime e una particolare efferatezza: serve che le vittime siano identificabili oggettivamente, oltre la parte in causa, come “gruppo umano” sufficientemente omogeneo e comunque identitario sul piano etnico, culturale o religioso, e che nei loro confronti venga progettato e tentativamente realizzato uno sterminio totale, sistematico ed esplicito in odio a quella loro omogeneità identitaria.

Grazie a ciò la storia ha dunque potuto trascinare in tribunale i nazisti per il genicidio degli ebrei e può accusare i turchi del genocidio dei cristiani armeni. La definizione di Lemkin ha infatti il vantaggio di essere retroattiva. Creata per colpire il Terzo Reich per un crimine creduto nuovo, è indispensabile per colpire crimini in realtà vecchi. Dato che il caso armeno ne soddisfaceva le condizioni, “genocidio” fu applicato al Metz Yeghérn e prima di esso al genocidio della Vandea, una regione dell’Ovest francese identitariamente cattolica a cui la benedetta cocciutaggine e la grande scienza storica di cui è dotato lo specialista Reynald Secher hanno dimostrato (non senza difficoltà, incomprensioni e guai) applicarsi le condizioni giuridiche richieste da Lemkin in opere imprescindibili quali Il genocidio vandeano (con una Prefazione di Pierre Chaunu [1923-2009] e una Presentazione di Jean Meyer, trad. it., Effedieffe, Milano 1991) e La guerra di Vandea e il Sistema di Spopolamento (trad. it., Effedieffe, Milano 1991) di Jean-Noël “Gracchus” Babeuf (1760-1797), da lui curato assieme a Jean-Joël Brégeon. Da allora, pur fra polemiche incessanti (e da quelle di basso cabotaggio, magari anche tra i “buoni”, non è proprio necessario lasciarsi distrarre), quella del genicidio vandeano è divenuta una scienza (quasi esatta), dotata di un formidabile strumento qual è il Centre Vendéen de Recherches Historiques di La Roche-sur-Yon, fondato nel 1994, e forte di pietre miliari come le 700 pagine di Vendée. Les archives de l’extermination (Éditions du CVRH, 2013) firmate dal suo fondatore, lo storico Alain Gérard docente alla Sorbona.

E il riferimento alla Vandea è obbligato perché non uno ma ben due Papi, san Giovanni Paolo II e Francesco, definiscono lucidamente quello armeno «il primo genocidio del XX secolo». Vale a dire che il secolo XX ha conosciuto, dopo, altri genocidi, per esempio quello degli ebrei ma non solo; e che quello armeno è il primo genocidio del Novecento ma non il primo in assoluto della storia, essendolo invece (questo è parte della “scienza quasi esatta” di cui sopra) quello vandeano. Papa Francesco lo sa bene e lo dice al mondo. Il Novecento ha cominciato con gli armeni, ha proseguito con gli ebrei e ha continuato indisturbato «in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia». Il Pontefice ha del resto avuto la profonda finezza storica di precisare che assieme al popolo armeno, «prima nazione cristiana», la follia genocida turca ha massacrato anche siri cattolici e ortodossi, assiri, caldei e quei greci che amano ancora definirsi antiocheni; non tutti lo sanno, non tutti lo vogliono sapere.

Ma il Papa non si è fermato ancora. Ha pure “osato” mettere sullo stesso piano, in modo politicamente scorretto quanto concettualmente precisissimo, nazismo e stalinismo, genocidi entrambi. Per il secondo la memoria va certamente almeno all’Holodomor, il genocidio ucraino per carestia indotta tra 1929 e 1933.

E la specchiata, riconosciuta superiorità del Papa a qualsiasi (malevolo) sospetto taglia del resto già le gambe a ogni eventuale quanto maliziosa critica: la retroattività del termine “genocidio” non relativizza affatto la gravità della Shoah ebraica allo scopo di cancellarla. Anzi. Se ogni genocidio è infatti certamente unico, comprendere e far comprendere che purtroppo il crimine genocida si è più volte ripetuto nella storia ‒ nella storia dell’evo moderno definito dalla secolarizzazione e delle ideologie ‒ serve a rafforzare la guardia. Avere dimenticato la Vandea, ha permesso l’Armenia e la Shoah, dice bene Secher in un suo libro del 1991, Juifs et Vendéens, d'un génocide à l'autre, la manipulation de la mémoire (Olivier Orban, Parigi). E lo stesso dice oggi al mondo il presidente dell’Armenia Sargsyan: «il Santo Padre ha lanciato un vigoroso messaggio alla comunità internazionale», che «i genocidi non condannati rappresentano un pericolo per l’intera umanità». Ovvio, dal suo punto di vista, che la Turchia scossa tra retaggio del nazionalismo laicistico e islamismo incipiente vada su tutte le furie. Ma ha torto marcio come tutti gli ideologi genocidi.

martedì 17 febbraio 2015

L'Italia che rifiuta la vita: appena 509mila nascite nel 2014 e la cifra choc di 100mila aborti! Negli ultimi anni, la proporzione tra aborti e nascite è stata (circa) 1 a 5.

L'Italia che rifiuta la vita
di Carlo Tiagrandi

Il dato avrebbe meritato ampia trattazione e spazi adeguati perché, di per sé, è clamoroso; ma, si sa: nel nostro tempo, le cose futili, in importanza, superano tutto. Così, basta dare una scorsa ai giornali per essere sommersi da San Remo e i suoi annessi, mentre il record negativo di nascite nel 2014 (dall’Unità d’Italia) veniva confinato in posizioni scarsette, per sparire, dai motori di ricerca, proprio del tutto.

Riassumendo: secondo l’Istat, i nati, l’anno scorso, sono stati 509mila (5mila in meno rispetto ai 514.308 del 2013), a fronte di 597mila morti (4mila in meno del 2013); il numero medio di figli per donna, inoltre, è stato pari a 1,39 (e, come è noto, è 2 il minimo di figli per coppia necessario perché la popolazione non si estingua). Sono numeri che contengono gravi implicazioni. Bastano poche considerazioni per comprendere quelle più immediate di natura economica: il Paese sta invecchiando. E sta invecchiando male. È ancora l’Istat, nel suo rapporto annuale, a rilevare come nei prossimi 30 anni, se persisteranno le dinamiche attuali, assisteremo ad un radicale capovolgimento della piramide demografica: nel 2041, la proporzione di over 65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni sarà più che raddoppiata, passando, al Sud, da 123 a 278, mentre al Centro-Nord da 159 a 242. Un problema serio, che metterà a repentaglio la sostenibilità, anzitutto, del sistema previdenziale, tenuto conto del fatto che, già oggi, l’Italia è il Paese europeo la cui spesa pensionistica è in assoluto la più alta (272,74 miliardi di euro nel 2013, pari al 16,85% del Pil).

Va da sé, inoltre, che un Paese che non fa figli erode la propria forza lavoro, perdendo capacità di produrre ricchezza: il rapporto tra la popolazione sopra i 65 anni e quella in età attiva (15-64 anni) era pari, al 1° gennaio 2015, al 33,7%. Nel 2011 (ultimi dati disponibili), le proiezioni indicavano, per il 2065, una crescita quasi doppia, pari al 59,7%. Tali previsioni, tuttavia, non inglobavano il recente peggioramento dell’evoluzione demografica che, oltretutto, non sarà neppure bilanciata dagli afflussi migratori: nel 2014, infatti, gli stranieri giunti in Italia per viverci sono stati 113mila, un decimo rispetto al 2013, quando furono 1 milione e 184 mila.

Le radici del problema sono lontane e basti ricordare che, esaurito il fenomeno dei baby-boomer, attorno alla seconda metà degli anni ’70 le crescite sono calate drasticamente in coincidenza con l'introduzione della legge sul divorzio. Ma in questa fase incide non poco anche la crisi economica: le nascite erano calate progressivamente fino a giungere a 526mila unità nel 1995. Da allora, hanno ripreso a crescere per poi tornare a contrarsi dal 2008, anno di inizio della crisi che si è declinata in precarietà e incertezza nel futuro. La disoccupazione giovanile (pur essendo calata di ben un punto rispetto alla precedente rilevazione) si attestava, a dicembre, sul 43%, più del doppio della media Ue, mentre circa 7 milioni di lavoratori percepiscono mediamente meno di mille euro al mese.

Tutto ciò contribuisce a far sì che le giovani coppie decidano di rinviare la nascita di un figlio in attesa di tempi migliori. Su tutto, pesa l’accanimento dello Stato. Il fisco italiano è, sostanzialmente, iniquo: disconosce la famiglia quale soggetto sociale e tassa in base alla capacità reddituale, senza tener conto del numero dei figli. Il che, val la pena ricordarlo, oltre ad essere antieconomico, è contrario anche alla Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva»; è chiaro che la capacità contributiva di chi ha figli è, in ragione del loro mantenimento, ridotta rispetto a chi non ne ha. Aggiungiamo che l’Italia, al netto del bonus bebé da 80 euro (che, in ogni caso, viene erogato per le famiglie con Isee inferiore ai 25mila euro, ovvero ad una platea piuttosto ristretta) si colloca per risorse destinate alla famiglia (in termini di sostegno al reddito, asili nido, strutture residenziali ecc…) al penultimo posto tra i Paesi europei, e che l’imposizione fiscale ha raggiunto il 42,6% del Pil, contro il 34,1% della media Ocse, e abbiamo un quadro abbastanza completo; dal punto di vista economico, almeno.

C’è un dato macroscopico, originato da ragioni essenzialmente culturali e la cui correlazione con il calo delle nascite, curiosamente, non è stata rilevata da alcun istituto o osservatorio: nel 2013, secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, sono state notificate dalle Regioni 102.644 interruzioni volontarie di gravidanza. Certo, il calo delle nascite del 2014 non è un dato commensurabile con gli aborti prodotti nell’anno precedente; tuttavia, è sufficiente considerare i nati nel 2013 (514.308), i nati e le Igv (Interruzioni volontarie di gravidanza) del 2012 (rispettivamente, 534.186 e 107.192), per ipotizzare che, verosimilmente, il numero di Ivg del 2014 non si discosterà significativamente dall’anno precedente, ed ecco emergere un rapporto inquietante: negli ultimi anni, la proporzione tra aborti e nascite è stata (circa) 1 a 5.  

Nel frattempo - perché è giusto parlare ancora di San Remo -, una famiglia con 16 figli viene sbeffeggiata dal pubblico in sala, mentre la drag queen barbuto Conchita Wurst è salutato come il nuovo eroe dei diritti civili.


Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

lunedì 16 febbraio 2015

Quella famiglia che al Festival ha parlato di Dio. #Sanremo2015

Quella famiglia che al Festival ha parlato di Dio
di Andrea Zambrano


Hanno fatto il loro ingresso sul palco dell'Ariston come calciatori annunciati dallo speaker allo stadio. Carlo Conti pensava di cavarsela con la solita passerella, che sarà mai: una donna cannone, un fenomeno da baraccone non fa male all'audience. E poi sai che bel Festival: di qua la famiglia numerosa, di là il travestito Conchita: son contenti tutti e il palco di Sanremo riunisce l'Italia. Troppo facile.

Invece la famiglia Anania, da Catanzaro, 1
6 figli 16, la famiglia più numerosa d'Italia ha spiazzato l'altezzoso pubblico sanremese con una frase che proprio non doveva uscire in prima serata, sull'ammiraglia della Tv di Stato, tra un Tiziano Ferro pronto a occupare la scena e una bellona spagnola rossa come una banderilla. Il primo applauso è previsto da contratto. Ed è stato quando il papà Aurelio ha ricordato che il vero applauso va «fatto al Signore perché tutto questo è opera di Dio», ha detto lui sorridente e spaesato ricordando che una famiglia di 16 figli 16 non è né normale né straordinaria, ma è straordinariamente normale, come ha tagliato corto dopo mamma Rita. Ma poi papà Aurelio ha voluto “esagerare” e ha detto ciò che non doveva dire: «Siamo così grazie allo Spirito Santo» e giù risate e mormorii imbarazzati da parte del pubblico.

Poi, sempre Aurelio, che provenendo dal Cammino neocatecumenale ha mostrato di impiparsi bellamente dei riti stantii e flaccidi del Festival della canzone, ha insistito: «Quello che ci fa straordinari è la presenza di Cristo che abbiamo tutti nel Battesimo». Gelo in sala, un gelo così tetro che non calava sull'Ariston da quando vinsero i Jalisse.

Ma Carlo Conti, di nome e di fatto, sa che bisogna fare alla famiglia Anania la domanda delle domande, quella più facile, quella che non si deve mai fare per paura di scoprire che le famiglie numerose sono umane, terribilmente umane. «Come fate a campare?». Forse il pubblico si aspettava che papà Aurelio dicesse che ci pensano i fondi neri del Sisde, diversamente non si spiega l'enorme e crassa risata degli invitati quando il capofamiglia ha rotto il tabù: «Semplice, c'è la Provvidenza. É tutto grazie a Dio».

In sala le signore con pelliccia guardano in basso, qualcuno abbozza un commento: i cumenda tossiscono per cavarsi di imbarazzo. Provvidenza? Chi era costei? sembrano chiedersi gli attoniti ospiti della rassegna canora. Al che Conti, che bravo è bravo e l'imbarazzo lo sa gestire meglio di Galliani dopo l'ennesima domanda su «perché Bonera?» rompe gli indugi e chiede qual è la canzone preferita di Sanremo. Il figliolo, uno dei tanti parla a nome della comitiva: «Gli occhi verdi dell'amore, perché nostra mamma ha gli occhi verdi». Tutto preparato certo, decisamente nazionalpopolare, ma almeno vero: canto, sguardo commosso e pubblicità, si volta pagina con altri casi umani.

I cinque minuti che hanno sconvolto Sanremo sono un bel pugno in faccia ai benpensanti. Uno shock, che il pubblico ha affrontato con i risolini in sala. I risolini infantili dei bambini quando per la prima volta scoprono che a portare i figli non è la cicogna. Numerosi vabbè, passi, ma cattolici e anche orgogliosi di esserlo poi no! Senza vergogna, ne parlano pure in pubblico mentre dovrebbero parlare di banalità tipo: «Vorremmo un mondo dove tutti si vogliono bene». Invece questi impertinenti degli Anania hanno rotto il protocollo secondo il quale si può parlare di tutto tranne che di esperienze umane dove la Provvidenza ad un certo punto fa capolino scombinando i piani che ci costruiamo per tenere il divino fuori dalla nostra quotidianità, relegandolo al minimo sindacale di buona creanza. Un protocollo codificato dai tempi in cui in Rai si è iniziato a lottizzare tutto tranne il laicismo, che invece ha invaso tutti, conduttori, sceneggiatori e giornalisti.

Tutto ciò, lo scandalo, il risolino, l'imbarazzo dello star system di fronte a quelle parole Gesù, Spirito Santo e Provvidenza, che secondo regole teologiche ormai autoimpostesi dal cattocomunismo di cui siamo imbevuti, devono rimanere nel privato, ricorda l'incipit di Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori. Best sellers di fama, pietra miliare della moderna apologetica e un altro pugno in faccia, se vogliamo, al perbenismo clericale. «Di Gesù non si parla tra persone per bene». Infatti, le persone per bene che si sono accomodate all'Ariston erano pronte a sorbirsi i lagni banali di Siani, uno che in quanto a cabaret ingrigisce più di un ritratto in bianco e nero del presidente Mattarella. Ma a sentir parlare di cose da preti no, «mi dispiace, ma ho pagato il biglietto per distrarmi, se volevo andare a messa, dovevate dirlo». Invece a sparigliare le carte ci hanno pensato gli Anania, che accogliendo 16 figli 16 si sono lasciati sprogrammare la vita da Gesù. Lasciandosi alle spalle calcoli, egoismi, vittimismi e altre rotture tipiche della nostra modernità quando deve decidere da che parte stare.

Eroi? No solo dignitosi e ricchi di una Grazia che hanno certo ricevuto in dono, ma che sicuramente hanno anche chiesto e accolto. Se Siani non fosse stato così attento al birignao sugli 80 euro e sulle tasse avrebbe chiuso forse in un modo diverso la sua performance e avrebbe invitato le signore “risolini” a guardare la realtà da un altra prospettiva, decisamente fuori schema: «Adesso che avete visto che questi qua sono umani come voi, cantano e si innamorano come voi, fanno la spesa e sognano come voi, provate un po' a sprogrammarvi la vita facendovi dettare l'agenda da un Altro. Chissà che non vi capiti di cambiare finalmente canale».



Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

lunedì 2 febbraio 2015

Sergio Mattarella. Un articolo ci spiega chi è. (di Giancarlo Perna)

Sergio Mattarella 
(di Giancarlo Perna)


Sergio Mattarella al Quirinale ci ridà un quaresimalista dello stampo di Oscar Luigi Scalfaro. Mattarella è pio, schivo, incapace di sorriso. Sul Colle l'hanno voluto i democristiani del Pd. In prima linea, Rosy Bindi che con lui, negli anni di Tangentopoli, liquidò in un amen la Dc, forzando la mano al mogio segretario, Mino Martinazzoli. Ne derivò il Ppi, che nacque esangue, morì in fasce e fu sepolto senza lasciare traccia.

Questa fragranza di crisantemi inquadra perfettamente il giro di Mattarella. È quello dei «basisti», variante della Dc di sinistra (l’altra era morotea), il più noto dei quali è l’irpino, Ciriaco De Mita. L’anima della stirpe fu però lombarda. Capostipite era il senatore bresciano Franco Salvi, ormai defunto. Costui indossava il cilicio, era cupo ed ebbe il soprannome di «2 novembre». Salvi clonò un gruppo di identici a lui: l’on. Pietro Padula, detto «bonjour tristesse», il sen. Martinazzoli noto come «cipresso», l’on Tarcisio Gitti, soprannominato «cripta». Di tutti si è persa la memoria. Questi sono gli antenati spirituali del settantatreenne Mattarella, reperto di un mondo scomparso.

Va detto a onore di Sergio – chiamato Sergiuzzo nella sua infanzia palermitana – di avere capito quasi per tempo che la politica del Duemila non era più per lui. Nel 2008 se ne andò dal Parlamento per usura, essendoci entrato nel 1983. Durante le sette legislature fu prima dc, poi Margherita, infine pd. È stato più volte ministro – nei governi Goria, De Mita e Andreotti alla fine degli anni ’80 – e addirittura vicepresidente del Consiglio con il D’Alema I (1998-1999). Il suo maggiore exploit fu l’invenzione del Mattarellum, dal suo nome latinizzato per burla dall’indignato politologo Giovanni Sartori. È il sistema elettorale – parte maggioritario (70 per cento), parte proporzionale (30), con sbarramento al 4 per cento – che incarna il tipico modo dc di conciliare gli opposti con un colpo al cerchio e uno alla botte. Il meccanismo fu paragonato all’ornitorinco, mammifero australiano col becco d’anatra, mani di scimmia, coda di foca. Col Mattarellum si votò tre volte, nel 1994, 1996 e 2001, con vittorie ripartite tra destra (due) e sinistra. Messo alla prova, il sistema se la cavò. Tanto che oggi, paragonato al Porcellum di Roberto Calderoli che lo sostituì, è perfino rimpianto.

Lasciato il Parlamento, Sergiuzzo dimostrò di non essere il tipo che resta appiedato senza una poltrona. Entrò subito nel Cpga, il Csm dei giudici amministrativi, incarico di nicchia, come si usa dire, ma discretamente remunerato. Poi, puntò direttamente alla Corte Costituzionale che è la più bella poltrona che ci sia. Dura nove anni, più di ogni alta carica; sei rispettato come un dio, pagato come un principe, intoccabile come un re, in un vorticare di auto blu, autisti, segretari e privilegi vari.

La nomina è stata però laboriosa. Candidato dal Pd, fu eletto il 6 ottobre 2011 dal Parlamento in seduta comune. Avrebbe dovuta farcela alla prima votazione perché c’era l’accordo col Berlusca. Ma si misero di traverso, radicali, Idv e un pezzo del Pd che voleva Luciano Violante, cioè un comunista vero invece di un ex dc. Bisognò così attendere la quarta votazione, in cui basta la maggioranza semplice. Essendo però incerti i numeri, il Pd, per sicurezza, precettò perfino una puerpera di appena due giorni, ordinandole la tassativa presenza in Aula. La ragazza, allora ancora ignota ai più, era Marianna Madia. La scheda della fatina fu quella decisiva per l’elezione. Mattarella ebbe giusto 572 voti, uno più del quorum.

Il volo di Sergiuzzo cominciò il giorno in cui Piersanti, suo fratello maggiore e presidente della Regione Sicilia, fu assassinato dalla mafia. Era il sei gennaio del 1980 e l’attentato avvenne di fronte allo studio dei Mattarella in via Libertà a Palermo. Sergio, che aveva assistito impietrito all’omicidio, soccorse il fratello che morì tra le sue braccia in ospedale. In quell’istante decise di raccogliere il testimone e continuare la tradizione politica cominciata col padre Bernardo, moroteo, più volte ministro nel dopoguerra, gran notabile che convisse senza urti con la mafia. Contrariamente a Piersanti che, infatti, ne fu ucciso e di Sergiuzzo che dell’antimafiosità ha fatto il suo vessillo corredandola di altre virtù: moralità politica, trasparenza, severità dei costumi.

Il segretario dc, De Mita, lo prese sotto la propria ala e gli spianò una carriera coi fiocchi che, da allora, antepose all’insegnamento del Diritto Parlamentare nell’Università di Palermo. Nel 1983, come sappiamo, divenne deputato e l’anno dopo fu per tre anni il plenipotenziario demitiano in Sicilia. In questa veste, inventò la figura di Leoluca Orlando facendolo sindaco di Palermo. Ce l’avrà per sempre sulla coscienza. Leoluca era ancora un placido dc ma la promozione gli dette al cervello. Divenne un compulsivo antimafioso e il prototipo di chi su questo imbastisce la carriera, finendo per accusare di connivenza perfino Giovanni Falcone.

Con gli anni ’90, comincia per Sergiuzzo la lunga marcia contro il Cav. Fu, anzi, un antemarcia poiché lo combatté prima ancora che entrasse in politica. Ministro dell’Istruzione di Andreotti, si dimise nell’istante stesso in cui il Parlamento approvò (luglio ’90) la Legge Mammì che manteneva le tre reti delle tv Fininvest, anziché ridurle a una come desiderava De Mita. Con lui, abbandonarono il governo Fracanzani, Misasi, Mannino e Martinazzoli, seguaci dell’irpino.

Quando poi, nel ’94, il Cav scese in campo, Sergiuzzo s’incattivì in quel modo cattolico, come la Bindi e Scalfaro, che non lascia scampo: con la totale consacrazione della propria vita alla distruzione del nemico. Nel ’95 ruppe con Rocco Buttiglione che, da segretario, voleva portare il Ppi nell’orbita del centrodestra e lo irrise come «el general golpista Roquito Buttillone». Negli anni in cui il Berlusca governò, definì «indecenti» le sue leggi affermando che i «ministri vanno in Parlamento solo quando c’è da votare leggi a favore del premier». Ebbe poi un travaso di bile il giorno in cui Fi entrò nel Ppe, sembrandogli sacrilego che lui della Margherita dovesse stare sotto lo stesso tetto. «È un incubo irrazionale», affermò, come se ci fossero incubi razionali. Brigò al punto che la sinistra dc uscì dal Ppe per non infettarsi. Inutile dire che tanto livore non è il migliore lasciapassare per il Quirinale.

Per concludere, Mattarella è un moralista. Come spesso accade con costoro, anche lui è inciampato. Negli anni ’90, fu rinviato a giudizio per finanziamento illecito, accusato dall’imprenditore siciliano Filippo Salamone di avere intascato cinquanta milioni di lire, più buoni benzina. Sergiuzzo giurò: «Il contributo non è mai esistito». Era falso. Messo alle strette, ammise la benzina, non i soldi. Se la cavò per il rotto della cuffia: l’imprenditore non fu creduto e i buoni, per un valore di tre milioni, furono giudicati veniali. Assolto.




Fonte: Giancarlo Perna liberoquotidiano.it

lunedì 12 gennaio 2015

Non c’è fede senza ragione Rodney Stark difende il Medioevo e spiega l’Inquisizione.

Non c’è fede senza ragione

(da un articolo di Persico Roberto - gennaio 24, 2008 per Tempi.it) 

Rodney Stark difende il Medioevo e spiega l’Inquisizione. Perché sono i cattolici i più galileiani di tutti, «come dimostra oggi Benedetto XVI»


Nel suo ufficio alla Baylor University nel Texas le notizie da Roma non sono arrivate. Ma quando gli raccontiamo quel che è successo settimana scorsa alla Sapienza parte in quarta: «La gente pensa che scienza e fede siano antagoniste, ma in realtà non sa di che cosa sta parlando. L’intera questione del legame religione-scienza è un errore e questo perché sempre più gente che non capisce nulla di scienza, non sa che cos’è la scienza. Prendiamo per esempio la questione dell’evoluzionismo, giusto per prendere uno dei dati di fatto più controversi. Supponiamo che qualcuno creasse un’ottima teoria dell’evoluzione, che spiegasse completamente l’origine delle specie: è una prova che non esiste Dio? Assolutamente no. Il problema da dove è venuto il mondo, da cosa ha avuto inizio, rimarrebbe tale e quale. Questo è qualcosa di cui possono parlare gli uomini di Chiesa, e di cui non possono parlare gli uomini di scienza. I grandi scienziati del sedicesimo e diciassettesimo secolo, gente come Newton, facevano il loro lavoro partendo dal presupposto dell’esistenza di un Dio razionale che ha creato l’universo. Gli scienziati cercano le leggi che funzionano all’interno del mondo, non affrontano la domanda riguardo le origini del mondo».

E Rodney Stark sa bene di cosa sta parlando. Ha dedicato infatti gli ultimi anni di lavoro e gli ultimi libri – La vittoria della ragione, tradotto in Italia l’anno passato, e For the glory of God, che attende ancora un’edizione nel nostro paese – allo studio della cultura occidentale, scoprendo che tutte le grandi conquiste culturali e sociali di cui andiamo fieri – la scienza, la democrazia, il libero mercato – affondano in realtà le loro radici nel cattolicesimo e nella visione del mondo che la Chiesa ha diffuso in Europa prima e in America poi.


  • Eppure sono in pochi a condividere questa visione. Anche lei, del resto, ha scritto, nella prefazione a For the glory of God, che non si immaginava lontanamente quanti pregiudizi anticattolici si trovassero nelle opere degli storici.

Sì. È impressionante constatare come lo studio del passato sia completamente distorto dall’odio verso la Chiesa cattolica. Nella scia di Voltaire, sembra che gli storici facciano a gara per mostrare la Chiesa cattolica nella luce peggiore possibile. Molti storici anglosassoni sono completamente suscettibili a questo atteggiamento. Prendiamo per esempio la cosiddetta “età oscura”, il medioevo: quando mi è stata insegnata a scuola l'”età oscura” mi è stato raccontato che non ci fu praticamente niente in Europa, per colpa del Papa, fino al quindicesimo secolo; oggi noi sappiamo che invece ci furono enormi progressi in quei mille anni. La Chiesa cattolica dovette combattere una durissima battaglia contro lo gnosticismo, che affermava che la materia è male, è irrazionale, è opera di un Dio cattivo; ci vollero secoli perché nelle coscienze si affermasse invece l’idea che il mondo è buono e razionale perché è creato da un Dio buono e razionale e non, come pensano gli gnostici, da un demone malvagio. Per questo forse si è dovuti arrivare fino al quindicesimo secolo prima che la razionalità del mondo insegnata dalla Chiesa si affermasse apertamente. È sostanzialmente una fiction, un’incredibile fiction quella che vede la Chiesa come un insieme di misteri sacri, è un totale non-sense, un’affermazione molto stupida.


  • Lei fa questo genere di affermazioni, ma se non sbaglio non è cattolico.

Sono cresciuto nel credo luterano.


  • Ed è abbastanza insolito che un luterano abbia una posizione così aperta nei confronti della Chiesa cattolica. Come è arrivato a maturarla?

Si cresce e se si è fortunati ci si forma e si conoscono dei buoni cattolici, capendo che sono persone serie e brillanti, oggi e nel passato. Prendiamo per esempio la questione dell’Inquisizione, di cui si continua a ripetere che ha ucciso centinaia di migliaia di persone. Sono tutte bugie: se c’è una forza che si è opposta alla caccia alle streghe in Europa, e che è riuscita in Italia e in Spagna a fermarla quasi del tutto, è stata la Chiesa cattolica. È del tutto falso che la Chiesa prendesse e bruciasse chiunque fosse in odore di stregoneria.


  • Siamo tornati a parlare di storia. Ma lei è nato come sociologo: vuol raccontare ai nostri lettori come è passato dalla sociologia alla storia?

Ho cominciato studiando la società americana contemporanea, e mi sono accorto che molti dei suoi tratti fondamentali dipendono dalla forte connotazione religiosa degli americani, e allora ho cominciato a studiare le origini di questa tradizione. È stato così che ho scoperto, come abbiamo già detto, con stupore, l’importanza della tradizione cattolica e i pregiudizi che la accompagnano. Ed è stato curioso scoprire anche come la religione si comporti nello stesso modo nelle diverse epoche: ho scoperto che si possono applicare le teorie della sociologia della religione alle epoche più disparate. Forse perché la dimensione religiosa svolge un ruolo determinante nella vita degli uomini, oggi come nell’Egitto del 2000 avanti Cristo. Così ho potuto applicare i metodi della sociologia anche allo studio della storia, che amo molto.


  • Lei ama la storia; molti intellettuali europei pensano invece che dovremmo fare piazza pulita del nostro passato. Che prospettive ha la nostra cultura in questa direzione?

Penso che ci sia gente che continua a ripetere idiozie perché non è in grado di dire cose più intelligenti. Essere ignoranti della propria storia non vuole dire essersene liberati, vuol dire semplicemente non conoscerla. Solo perché il Ventesimo secolo è stato insanguinato da tante guerre non bisogna pensare che la civilizzazione occidentale non sia un bene superiore e assoluto. Ovviamente nel Ventesimo secolo ci sono state un sacco di cose orrende ma la storia è storia, bisogna trarne insegnamento, capirla. I soggetti che hanno scatenato le tragedie del Ventesimo secolo sono state forze empie, anti-religiose; mentre sono state la Chiesa cattolica e gli ortodossi a sostenere la resistenza al totalitarismo e poi la rinascita dagli anni Settanta agli anni Novanta del Novecento. Ci sono sempre cose e persone degne di nota e merito anche in tempi difficili e sostanzialmente brutti.


  • Torniamo al punto di partenza: che influsso pensa possa avere il magistero di questo Papa (Benedetto XVI) nell’opera di recupero del rapporto fra fede e ragione?

È evidente che questo Papa è un uomo molto brillante e ottimamente preparato a livello culturale. Ha capito alcuni punti fondamentali come ad esempio il fatto che non ci sia conflitto tra religione e scienza. La ragione ha una straordinaria importanza per la fede. I primi padri della Chiesa celebravano la ragione e dicevano che se la loro fede non fosse stata ragionevole ci sarebbe stato da preoccuparsi, perché Dio era ragionevole, era forse la cosa più vicina alla ragione di cui poter parlare. «La ragione è cosa di Dio, poiché non c’è nulla che Dio, creatore di tutte le cose, non abbia disposto, previsto, ordinato secondo ragione, nulla che non voglia doversi trattare e capire secondo ragione», scrive Tertulliano. «Queste cose devono essere anche asserite dalla ragione – rincara Clemente Alessandrino -. Infatti non è sicuro affidare queste cose alla mera fede senza ragione, è certo che la verità non sussiste senza ragione». Così questo Papa non fa che recuperare una tradizione antica e solida nella Chiesa.


  • Viceversa il rapporto tra fede e ragione si pone in termini molto diversi nel mondo i-slamico.

È un vero peccato che l’aspetto che si impone del mondo islamico sia quello dei fanatici. Il problema è che la maggioranza dei musulmani restano in silenzio, si accodano al carro del fanatismo magari non credendoci. Ci sono buoni musulmani, sinceramente religiosi, che però non compaiono nell’immagine dell’islam che viene rimandata all’esterno, gente che non accetta gli errori e le scelte delle proprie leadership e che non accetta nemmeno i kamikaze, ma che non parla, non emerge. Il problema è che a far notizia sono gli estremisti.

domenica 11 gennaio 2015

Altro che secoli bui. La lezione di Rodney Stark sul Medioevo e le crociate.

Si parla spesso a sproposito di Medioevo in questi giorni. Molti luoghi comuni su un periodo della storia spesso descritto come oscuro sono sfatati in un libro di Rodney Stark. Accanto ad un esempio illuminante sulla battaglia di Lepanto.

Altro che secoli bui. 
La lezione di Rodney Stark 
sul Medioevo e le crociate

Da una lunga recensione di Paolo Mieli, uscita sul Corriere della Sera al libro del sociologo Rodney Stark (oggi insegnante di Scienze sociali presso la Baylor University in Texas) La vittoria dell’Occidente (Lindau). Quest’ultimo libro, così come i precedenti, dimostra come il cristianesimo sia stato motore, e non zavorra, per lo sviluppo dell’umanità nella storia.

SUPERIORITA’ OCCIDENTALE. Il ragionamento di Stark, evidenziato da Mieli, è che sono le idee a fare la differenza. E che è il mondo occidentale, basato sulla cultura greca prima e cristiana poi, ad aver dato linfa allo sviluppo. Un esempio? La polvere da sparo. La inventarono i cinesi, eppure per secoli non la utilizzarono per le armi da fuoco. «Già nell’antichità, su tantissime tecnologie cruciali la Cina era molto avanti rispetto all’Europa. Quando però i portoghesi vi arrivarono nel 1517, scrive provocatoriamente Stark, “trovarono una società arretrata in cui le classi privilegiate ritenevano più importante azzoppare le ragazzine bendando loro i piedi, che sviluppare tecniche agricole più produttive di quelle che avevano per far fronte alle frequenti carestie”».
Perché la società occidentale si è dimostrata nel corso dei secoli sempre superiore alle altre? «Perché la scienza e la democrazia sono nate in Occidente, insieme all’arte figurativa, ai camini, al sapone, alle canne dell’organo e a un sistema di notazione musicale? Perché è accaduto che, per parecchie centinaia di anni a partire dal XIII secolo, soltanto gli europei avevano gli occhiali e gli orologi meccanici? E successivamente telescopi, microscopi e periscopi? Per le idee, dice Stark: “solo gli occidentali hanno pensato che la scienza fosse possibile, che l’universo funzionasse secondo regole razionali che potevano essere scoperte”».

IL MEDIOEVO E LE CROCIATE. Stark, poi, propone una formidabile difesa del Medioevo, i cui secoli non furono mai «bui», anzi. «Il Medioevo è stato un’epoca di notevole progresso e innovazione, tra cui “l’invenzione del capitalismo”. La maggior parte degli europei “iniziarono a mangiare meglio di come avessero mai mangiato nel corso della storia e di conseguenza divennero più grandi e forti di coloro che vivevano altrove”. Nel 732, gli invasori islamici, quando penetrarono in Gallia, si trovarono di fronte “un esercito di franchi splendidamente armati ed addestrati e furono sconfitti”».
Così come le crociate, rilette da Stark fuggendo da molti stereotipi che ancora oggi vanno per la maggiore. «Non è vero che i crociati, in seguito, abbiano “marciato verso oriente per conquistare terre e bottino”. Anzi. Si erano “indebitati fino al collo per finanziare la propria partecipazione a quella che consideravano una missione religiosa”. I più “ritenevano improbabile la possibilità di sopravvivere e di tornare in patria (e infatti non tornarono)”. Come dimostrano le crociate, “per gli europei la vera base dell’unità era il cristianesimo, che si era trasformato in una ben organizzata burocrazia internazionale”. A tal punto che “sarebbe più corretto parlare di Cristianità più che di Europa, dal momento che, all’epoca, quest’ultima aveva ben poco significato sociale o culturale”».

CONTRO LA TESI DI MAX WEBER. «Uno dei fattori più importanti nel favorire l’ascesa dell’Occidente è stata la fede nel libero arbitrio», scrive Stark. «Mentre la maggior parte delle antiche società (se non tutte) credevano nel fato, gli occidentali giunsero alla convinzione che gli esseri umani sono relativamente liberi di seguire quello che detta la propria coscienza e che, essenzialmente, sono artefici del proprio destino». Dopo aver smontato «la famosa tesi di Max Weber secondo cui l’etica protestante sarebbe all’origine del capitalismo», Stark dimostra che una sorta di protocapitalismo nacque «molti secoli prima che esistessero i protestanti». «A metà del Trecento, dopo l’epidemia provocata dalla Peste Nera, “la scarsità di manodopera”, come ha dimostrato David Herlihy, “stimolò le invenzioni e lo sviluppo di tecnologie che consentissero di risparmiare forza lavoro. Quindi l’Europa medievale “vide l’ascesa del sistema bancario, di un’elaborata rete manifatturiera, di rapide innovazioni in campo tecnologico e finanziario, nonché una dinamica rete di città commerciali. Va anticipato ad allora l’inizio, o quantomeno i “primi passi”, di quella che avremmo definito la “Rivoluzione industriale”. Già da molto tempo l’Europa era più avanti del resto del mondo in fatto di tecnologia, “ma alla fine del XVI secolo quel divario era ormai diventato un abisso”».

L’ESEMPIO DI LEPANTO. Mieli riporta infine un’osservazione che Stark fa a proposito della battaglia di Lepanto (ottobre 1571). «”Quando saccheggiarono le imbarcazioni turche ancora non affondate, i marinai cristiani vittoriosi scoprirono un autentico tesoro in monete d’oro a bordo della ‘sultana’, l’ammiraglia di Ali Pasha, e ricchezze quasi altrettanto ingenti furono trovate nelle galee di parecchi altri ammiragli. Il perché lo ha spiegato Victor Davis Hanson: “Non essendoci un sistema bancario, temendo una confisca qualora avesse scontentato il sultano e sempre attento a tenere i propri averi al riparo dell’attenzione degli esattori fiscali, Ali Pasha si era portato la sua immensa ricchezza a Lepanto”. Eppure, fa notare Stark, Ali Pasha “non era un contadino che nascondeva il surplus del raccolto, ma un membro dell’élite dominante… se una persona come lui non era in grado di trovare investimenti sicuri e non se la sentiva di lasciare i suoi soldi a casa, come era possibile che qualcun altro potesse sperare di far meglio?. Il concetto che, in epoca medievale, la cultura islamica fosse molto più avanzata di quella europea “è un’illusione”. E in queste pagine sono trasparenti le allusioni agli abbagli provocati di recente dalle cosiddette primavere arabe. Più che trasparenti: esplicite».

Fonte: La lezione di Rodney Stark su Medioevo e crociate | Tempi.it

venerdì 9 gennaio 2015

Charlie Hebdo. Un'analisi di padre Samir: «I musulmani sanno che non basta dire: “Non c’entra con l’islam”»

In un’analisi pubblicata su AsiaNews padre Samir Khalil Samir, gesuita arabo, docente di storia araba e islamologia all’università di Beirut, si sbarazza in poche righe delle critiche stupide (islam=terrorismo) ma non chiude gli occhi davanti ai fatti, cercando di capirne l’origine: «Almeno l’80% degli attacchi terroristi nel mondo avviene in nome dell’islam, per difendere la fede, il profeta… e questo stile si diffonde sempre di più, anche in Occidente».

Ecco cosa scrive padre Samir:

C'è una guerra interna all'islam 
e i politici occidentali non difendono 
la cultura europea

di Samir Khalil Samir

L'odio fra sciiti e sunniti aumenta sempre più, con questi ultimi che riconquistare il potere che hanno perduto in Iraq, in Libano, in Siria... L'islam dovrebbe affrontare a fondo le tematiche della modernità: l'interpretazione di fondo del Corano, la non violenza, la libertà di coscienza, ma nessuno osa farlo. L'occidente dovrebbe chiedere agli immigrati di entrare nel sistema esistente qui, integrandovi dal punto di vista economico, politico, sociale. E controllare le moschee, come fanno i Paesi musulmani. 

Beirut - Subito dopo l'attacco di Parigi, al giornale Charlie Hebdo, le Comunità musulmane di Francia hanno emesso un comunicato molto equilibrato e ragionevole. Ma tutte queste dichiarazioni mostrano un certo imbarazzo: essi sanno che non basta dire "Questo non c'entra con l'islam". Perché i fatti danno loro torto: almeno l'80% degli attacchi terroristi nel mondo avviene in nome dell'islam, per difendere la fede, il profeta.. e questo stile si diffonde sempre di più, anche in occidente.

Ho parlato ieri con un imam di Parigi e mi ha detto che nella capitale francese hanno iniziato una scuola per imam. Vi sono oltre mille iscritti. In questa scuola si vuole orientare gli imam a conoscere la cultura occidentale, a integrarsi.

Questa è una notizia importante  perché nell'islam, tutto parte dagli imam. In Europa gli imam e i predicatori delle moschee sono pagati dai loro Paesi di origine. Ora in Francia vogliono creare un islam autoctono, che assimili i valori occidentali della Francia.

Ma questo contrasta con la maggioranza dei musulmani attivisti, secondo cui questo occidente è un nemico, e l'islam è un sistema che va diffuso, anche con la violenza.

Di fatto, in Medio oriente e in Europa si scontrano due modi di vedere l'islam.

Se guardiamo al Medio oriente e oltre, ci accorgiamo di quanto forte è la contrapposizione e la violenza fra sunniti e sciiti.

Ho incontrato un imam che era di Mosul. E' uno sciita che ha avuto la sua famiglia uccisa dai fondamentalisti sunniti. Ora è emigrato a Najaf, dove il grande ayatollah Alì al Sistani ha costruito un villaggio per accogliere sciiti e cristiani fuggiti da Mosul.

L'odio fra sunniti e sciiti aumenta sempre più, soprattutto quello della sunna contro gli sciiti considerati apostati. In mezzo a questi due ci sono le minoranze: cristiani, yazidi, curdi, ecc... E' una lotta dei sunniti per riconquistare ciò che hanno perduto: l'Iraq guidato da sciiti; la Siria guidata da alauiti; gli Hezbollah sciiti in Libano, più potenti dell'esercito regolare...

Quello dei sunniti è un tentativo di riprendere spazio, considerando se stessi l'autentica forma dell'islam.

E' un lotta anzitutto all'interno dell'islam, che poi si riversa sulle minoranze e sull'occidente, come colui che ha promosso Israele, che è secolarizzato, ecc..

Ma è il nemico più lontano. Il fatto più scottante è la lotta interna per chi propaga l'islam più autentico.

Perfino in Libano c'è questa forte tensione. E per questo tutte e due le comunità musulmane chiedono ai cristiani di rimanere perché facciano da cuscinetto. Se in Libano non ci fossero i cristiani, sarebbe già guerra fra sunniti e sciiti.

L'islam dovrebbe affrontare a fondo le tematiche della modernità: l'interpretazione di fondo del Corano, la non violenza,  la libertà di coscienza, ma nessuno osa farlo.

La non violenza

Una prima cosa che varrebbe la pena accettare da parte di tutti è il principio della non violenza. Tutti i musulmani affermano che "l'Islam è pace", che non è violento, ecc...

Le vignette di Charlie Hebdo, ad esempio, sono una cosa vecchia, di alcuni mesi fa. D'accordo, i disegni sono ironici, sarcastici, scurrili perfino, ma voi musulmani perché dovete rispondere con la violenza? Perché a uno scritto non rispondere con uno scritto?

In passato (nel 2006) Charlie Hebdo aveva presentato Maometto con una bomba al posto del turbante. Ma io dico ai miei amici musulmani: Come rappresentate voi Maometto? Con la spada. Al museo di Istanbul vi sono addirittura due spade considerate appartenute al profeta. E l'Arabia saudita, il Paese custode dei luoghi santi dell'islam, cosa ha sulla sua bandiera? Due spade! Allora io dico: quelli di Charlie Hebdo hanno solo modernizzato la figura di Maometto. Una volta vi erano le spade; oggi ci sono le bombe!

Finché l'islam, invece di battersi contro gli altri -  apostati, cristiani, occidente, atei -  non fa un'autocritica e riconosce che il problema è al suo interno, non se ne viene fuori e i Paesi islamici saranno sempre più caratterizzati dalla guerra fra di loro.

Anche gli scontri che avvengono in Africa, nei Paesi arabi mediterranei e al confine con il deserto del Sahara sono scontri interni all'islam.

Vorrei dire agli amici musulmani: affrontate i problemi, fate l'autocritica, ripensate l'islam per oggi, reinterpretate le parole del profeta.  Anche nella Bibbia vi sono versetti che inneggiano alla guerra. Ma tutti noi comprendiamo che occorre reinterpretarle e non prenderle alla lettera.

Bisogna tenere conto che siamo ormai nel XXI secolo. Chi paga in queste guerre sono i semplici, le minoranze, chi non ha difese.

L'Arabia saudita

Lo scontro fra sunniti e sciiti si coagula anche nella lotta fra Arabia saudita e Iran. Qui alla religione si aggiungono problemi economici, strategici, geopolitici, di dominio...

Bisogna dire all'Arabia saudita che ormai viviamo nel XXI secolo: come è possibile, per esempio,  negare alle donne il diritto di guidare l'auto da sole?  Che le donne non abbiano ancora il diritto di votare a livello nazionale?

Ora, chi compie queste cose - l'Arabia saudita - lo fa come l'autentico interprete dell'islam, in nome dell'islam. E questo disgusta tutti, anche i musulmani.

Se tu fai queste cose in nome della religione, allora non protestare se io attacco la tua religione che ti porta a umiliare così tanto un essere umano.

Se tu parli con i musulmani ti dicono: Sì, certo l'Arabia saudita è un Paese reazionario, retrogrado.. Ma siccome i sauditi offrono miliardi ai diversi Paesi, alla fine tutti loro dicono: "Dio benedica l'Arabia saudita!".


 L'occidente che non sa cosa fare

E in occidente? Il problema del rapporto coi musulmani, c'è perché molti di loro non si vogliono integrare, dato che l'islam è un sistema, non solo una religione. Diversi di loro - la maggioranza - cercano di integrarsi, ma lo fanno lentamente. In Francia erano più integrati gli algerini di 50 anni fa che gli emigrati di oggi.

Ora, in Francia, in quasi tutto il Paese ci sono scuole e supermercati dove si offre cibo halal. E per semplificare, ormai anche nelle scuole e nei supermercati spesso si vende solo roba halal, che è mangiabile anche dai non musulmani.

Questo porta a vedere i musulmani come una minaccia, che rischiano di cancellare i propri valori occidentali (fra cui vi è anche il mangiare carne di maiale). E vedendo che i musulmani si organizzano in gruppi attivisti, anche gli occidentali si organizzano in gruppi con slogan anti-islamici.

Va detto che i politici europei non affrontano mai il problema. Essi dovrebbero dire ai migranti: Siete benvenuti. Noi vi accogliamo fraternamente anche perché siamo di tradizione cristiana. Se volete, potete stare qui, ma dovete integrarvi, potete praticare la religione che volete,  o potete essere atei,  ma dovete entrare nel sistema esistente qui, integrandovi dal punto di vista  economico, politico, sociale, culturale.

Purtroppo i politici preferiscono non mettere il becco e predicare solo una vaga accoglienza, ricacciando la cultura europea a livello privato.

In generale vedo che in molte parti dell'Europa esiste un'accoglienza molto forte verso i migranti. E anche fra i musulmani vi è apertura. Ma vi è un nucleo di islamici che rifiuta l'integrazione e che la combatte.

Per vigilare su questo aspetto, occorre controllare le moschee. A prima vista questo è contrario al nostro spirito europeo, di distinzione fra Stato e religione. Ma le moschee nell'islam non sono soltanto un luogo di preghiera. Esse sono un luogo d'indottrinamento e di indicazioni politiche, talvolta anche dannose verso la comunità. Per questo lo Stato europeo dovrebbe controllarle, come si fa in tutti i Paesi musulmani. Nel mondo islamico le moschee sono le prime realtà che vengono controllate.

Quest'ultimo esempio mostra che purtroppo, di fronte alle pretese certezze dei gruppi islamici organizzati, vi sono ancora molte incertezze nel mondo occidentale.

In breve, ci vuole apertura agli emigrati, e in particolari ai musulmani, e nello stesso tempo esigenze di integrazione socio-culturale, per evitare i conflitti e le umiliazioni.



Fonti; Asia News e Tempi

sito internet

Twitter del Viandante

 
Photography Templates | Slideshow Software