martedì 17 febbraio 2015

L'Italia che rifiuta la vita: appena 509mila nascite nel 2014 e la cifra choc di 100mila aborti! Negli ultimi anni, la proporzione tra aborti e nascite è stata (circa) 1 a 5.

L'Italia che rifiuta la vita
di Carlo Tiagrandi

Il dato avrebbe meritato ampia trattazione e spazi adeguati perché, di per sé, è clamoroso; ma, si sa: nel nostro tempo, le cose futili, in importanza, superano tutto. Così, basta dare una scorsa ai giornali per essere sommersi da San Remo e i suoi annessi, mentre il record negativo di nascite nel 2014 (dall’Unità d’Italia) veniva confinato in posizioni scarsette, per sparire, dai motori di ricerca, proprio del tutto.

Riassumendo: secondo l’Istat, i nati, l’anno scorso, sono stati 509mila (5mila in meno rispetto ai 514.308 del 2013), a fronte di 597mila morti (4mila in meno del 2013); il numero medio di figli per donna, inoltre, è stato pari a 1,39 (e, come è noto, è 2 il minimo di figli per coppia necessario perché la popolazione non si estingua). Sono numeri che contengono gravi implicazioni. Bastano poche considerazioni per comprendere quelle più immediate di natura economica: il Paese sta invecchiando. E sta invecchiando male. È ancora l’Istat, nel suo rapporto annuale, a rilevare come nei prossimi 30 anni, se persisteranno le dinamiche attuali, assisteremo ad un radicale capovolgimento della piramide demografica: nel 2041, la proporzione di over 65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni sarà più che raddoppiata, passando, al Sud, da 123 a 278, mentre al Centro-Nord da 159 a 242. Un problema serio, che metterà a repentaglio la sostenibilità, anzitutto, del sistema previdenziale, tenuto conto del fatto che, già oggi, l’Italia è il Paese europeo la cui spesa pensionistica è in assoluto la più alta (272,74 miliardi di euro nel 2013, pari al 16,85% del Pil).

Va da sé, inoltre, che un Paese che non fa figli erode la propria forza lavoro, perdendo capacità di produrre ricchezza: il rapporto tra la popolazione sopra i 65 anni e quella in età attiva (15-64 anni) era pari, al 1° gennaio 2015, al 33,7%. Nel 2011 (ultimi dati disponibili), le proiezioni indicavano, per il 2065, una crescita quasi doppia, pari al 59,7%. Tali previsioni, tuttavia, non inglobavano il recente peggioramento dell’evoluzione demografica che, oltretutto, non sarà neppure bilanciata dagli afflussi migratori: nel 2014, infatti, gli stranieri giunti in Italia per viverci sono stati 113mila, un decimo rispetto al 2013, quando furono 1 milione e 184 mila.

Le radici del problema sono lontane e basti ricordare che, esaurito il fenomeno dei baby-boomer, attorno alla seconda metà degli anni ’70 le crescite sono calate drasticamente in coincidenza con l'introduzione della legge sul divorzio. Ma in questa fase incide non poco anche la crisi economica: le nascite erano calate progressivamente fino a giungere a 526mila unità nel 1995. Da allora, hanno ripreso a crescere per poi tornare a contrarsi dal 2008, anno di inizio della crisi che si è declinata in precarietà e incertezza nel futuro. La disoccupazione giovanile (pur essendo calata di ben un punto rispetto alla precedente rilevazione) si attestava, a dicembre, sul 43%, più del doppio della media Ue, mentre circa 7 milioni di lavoratori percepiscono mediamente meno di mille euro al mese.

Tutto ciò contribuisce a far sì che le giovani coppie decidano di rinviare la nascita di un figlio in attesa di tempi migliori. Su tutto, pesa l’accanimento dello Stato. Il fisco italiano è, sostanzialmente, iniquo: disconosce la famiglia quale soggetto sociale e tassa in base alla capacità reddituale, senza tener conto del numero dei figli. Il che, val la pena ricordarlo, oltre ad essere antieconomico, è contrario anche alla Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva»; è chiaro che la capacità contributiva di chi ha figli è, in ragione del loro mantenimento, ridotta rispetto a chi non ne ha. Aggiungiamo che l’Italia, al netto del bonus bebé da 80 euro (che, in ogni caso, viene erogato per le famiglie con Isee inferiore ai 25mila euro, ovvero ad una platea piuttosto ristretta) si colloca per risorse destinate alla famiglia (in termini di sostegno al reddito, asili nido, strutture residenziali ecc…) al penultimo posto tra i Paesi europei, e che l’imposizione fiscale ha raggiunto il 42,6% del Pil, contro il 34,1% della media Ocse, e abbiamo un quadro abbastanza completo; dal punto di vista economico, almeno.

C’è un dato macroscopico, originato da ragioni essenzialmente culturali e la cui correlazione con il calo delle nascite, curiosamente, non è stata rilevata da alcun istituto o osservatorio: nel 2013, secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, sono state notificate dalle Regioni 102.644 interruzioni volontarie di gravidanza. Certo, il calo delle nascite del 2014 non è un dato commensurabile con gli aborti prodotti nell’anno precedente; tuttavia, è sufficiente considerare i nati nel 2013 (514.308), i nati e le Igv (Interruzioni volontarie di gravidanza) del 2012 (rispettivamente, 534.186 e 107.192), per ipotizzare che, verosimilmente, il numero di Ivg del 2014 non si discosterà significativamente dall’anno precedente, ed ecco emergere un rapporto inquietante: negli ultimi anni, la proporzione tra aborti e nascite è stata (circa) 1 a 5.  

Nel frattempo - perché è giusto parlare ancora di San Remo -, una famiglia con 16 figli viene sbeffeggiata dal pubblico in sala, mentre la drag queen barbuto Conchita Wurst è salutato come il nuovo eroe dei diritti civili.


Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

lunedì 16 febbraio 2015

Quella famiglia che al Festival ha parlato di Dio. #Sanremo2015

Quella famiglia che al Festival ha parlato di Dio
di Andrea Zambrano


Hanno fatto il loro ingresso sul palco dell'Ariston come calciatori annunciati dallo speaker allo stadio. Carlo Conti pensava di cavarsela con la solita passerella, che sarà mai: una donna cannone, un fenomeno da baraccone non fa male all'audience. E poi sai che bel Festival: di qua la famiglia numerosa, di là il travestito Conchita: son contenti tutti e il palco di Sanremo riunisce l'Italia. Troppo facile.

Invece la famiglia Anania, da Catanzaro, 1
6 figli 16, la famiglia più numerosa d'Italia ha spiazzato l'altezzoso pubblico sanremese con una frase che proprio non doveva uscire in prima serata, sull'ammiraglia della Tv di Stato, tra un Tiziano Ferro pronto a occupare la scena e una bellona spagnola rossa come una banderilla. Il primo applauso è previsto da contratto. Ed è stato quando il papà Aurelio ha ricordato che il vero applauso va «fatto al Signore perché tutto questo è opera di Dio», ha detto lui sorridente e spaesato ricordando che una famiglia di 16 figli 16 non è né normale né straordinaria, ma è straordinariamente normale, come ha tagliato corto dopo mamma Rita. Ma poi papà Aurelio ha voluto “esagerare” e ha detto ciò che non doveva dire: «Siamo così grazie allo Spirito Santo» e giù risate e mormorii imbarazzati da parte del pubblico.

Poi, sempre Aurelio, che provenendo dal Cammino neocatecumenale ha mostrato di impiparsi bellamente dei riti stantii e flaccidi del Festival della canzone, ha insistito: «Quello che ci fa straordinari è la presenza di Cristo che abbiamo tutti nel Battesimo». Gelo in sala, un gelo così tetro che non calava sull'Ariston da quando vinsero i Jalisse.

Ma Carlo Conti, di nome e di fatto, sa che bisogna fare alla famiglia Anania la domanda delle domande, quella più facile, quella che non si deve mai fare per paura di scoprire che le famiglie numerose sono umane, terribilmente umane. «Come fate a campare?». Forse il pubblico si aspettava che papà Aurelio dicesse che ci pensano i fondi neri del Sisde, diversamente non si spiega l'enorme e crassa risata degli invitati quando il capofamiglia ha rotto il tabù: «Semplice, c'è la Provvidenza. É tutto grazie a Dio».

In sala le signore con pelliccia guardano in basso, qualcuno abbozza un commento: i cumenda tossiscono per cavarsi di imbarazzo. Provvidenza? Chi era costei? sembrano chiedersi gli attoniti ospiti della rassegna canora. Al che Conti, che bravo è bravo e l'imbarazzo lo sa gestire meglio di Galliani dopo l'ennesima domanda su «perché Bonera?» rompe gli indugi e chiede qual è la canzone preferita di Sanremo. Il figliolo, uno dei tanti parla a nome della comitiva: «Gli occhi verdi dell'amore, perché nostra mamma ha gli occhi verdi». Tutto preparato certo, decisamente nazionalpopolare, ma almeno vero: canto, sguardo commosso e pubblicità, si volta pagina con altri casi umani.

I cinque minuti che hanno sconvolto Sanremo sono un bel pugno in faccia ai benpensanti. Uno shock, che il pubblico ha affrontato con i risolini in sala. I risolini infantili dei bambini quando per la prima volta scoprono che a portare i figli non è la cicogna. Numerosi vabbè, passi, ma cattolici e anche orgogliosi di esserlo poi no! Senza vergogna, ne parlano pure in pubblico mentre dovrebbero parlare di banalità tipo: «Vorremmo un mondo dove tutti si vogliono bene». Invece questi impertinenti degli Anania hanno rotto il protocollo secondo il quale si può parlare di tutto tranne che di esperienze umane dove la Provvidenza ad un certo punto fa capolino scombinando i piani che ci costruiamo per tenere il divino fuori dalla nostra quotidianità, relegandolo al minimo sindacale di buona creanza. Un protocollo codificato dai tempi in cui in Rai si è iniziato a lottizzare tutto tranne il laicismo, che invece ha invaso tutti, conduttori, sceneggiatori e giornalisti.

Tutto ciò, lo scandalo, il risolino, l'imbarazzo dello star system di fronte a quelle parole Gesù, Spirito Santo e Provvidenza, che secondo regole teologiche ormai autoimpostesi dal cattocomunismo di cui siamo imbevuti, devono rimanere nel privato, ricorda l'incipit di Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori. Best sellers di fama, pietra miliare della moderna apologetica e un altro pugno in faccia, se vogliamo, al perbenismo clericale. «Di Gesù non si parla tra persone per bene». Infatti, le persone per bene che si sono accomodate all'Ariston erano pronte a sorbirsi i lagni banali di Siani, uno che in quanto a cabaret ingrigisce più di un ritratto in bianco e nero del presidente Mattarella. Ma a sentir parlare di cose da preti no, «mi dispiace, ma ho pagato il biglietto per distrarmi, se volevo andare a messa, dovevate dirlo». Invece a sparigliare le carte ci hanno pensato gli Anania, che accogliendo 16 figli 16 si sono lasciati sprogrammare la vita da Gesù. Lasciandosi alle spalle calcoli, egoismi, vittimismi e altre rotture tipiche della nostra modernità quando deve decidere da che parte stare.

Eroi? No solo dignitosi e ricchi di una Grazia che hanno certo ricevuto in dono, ma che sicuramente hanno anche chiesto e accolto. Se Siani non fosse stato così attento al birignao sugli 80 euro e sulle tasse avrebbe chiuso forse in un modo diverso la sua performance e avrebbe invitato le signore “risolini” a guardare la realtà da un altra prospettiva, decisamente fuori schema: «Adesso che avete visto che questi qua sono umani come voi, cantano e si innamorano come voi, fanno la spesa e sognano come voi, provate un po' a sprogrammarvi la vita facendovi dettare l'agenda da un Altro. Chissà che non vi capiti di cambiare finalmente canale».



Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

lunedì 2 febbraio 2015

Sergio Mattarella. Un articolo ci spiega chi è. (di Giancarlo Perna)

Sergio Mattarella 
(di Giancarlo Perna)


Sergio Mattarella al Quirinale ci ridà un quaresimalista dello stampo di Oscar Luigi Scalfaro. Mattarella è pio, schivo, incapace di sorriso. Sul Colle l'hanno voluto i democristiani del Pd. In prima linea, Rosy Bindi che con lui, negli anni di Tangentopoli, liquidò in un amen la Dc, forzando la mano al mogio segretario, Mino Martinazzoli. Ne derivò il Ppi, che nacque esangue, morì in fasce e fu sepolto senza lasciare traccia.

Questa fragranza di crisantemi inquadra perfettamente il giro di Mattarella. È quello dei «basisti», variante della Dc di sinistra (l’altra era morotea), il più noto dei quali è l’irpino, Ciriaco De Mita. L’anima della stirpe fu però lombarda. Capostipite era il senatore bresciano Franco Salvi, ormai defunto. Costui indossava il cilicio, era cupo ed ebbe il soprannome di «2 novembre». Salvi clonò un gruppo di identici a lui: l’on. Pietro Padula, detto «bonjour tristesse», il sen. Martinazzoli noto come «cipresso», l’on Tarcisio Gitti, soprannominato «cripta». Di tutti si è persa la memoria. Questi sono gli antenati spirituali del settantatreenne Mattarella, reperto di un mondo scomparso.

Va detto a onore di Sergio – chiamato Sergiuzzo nella sua infanzia palermitana – di avere capito quasi per tempo che la politica del Duemila non era più per lui. Nel 2008 se ne andò dal Parlamento per usura, essendoci entrato nel 1983. Durante le sette legislature fu prima dc, poi Margherita, infine pd. È stato più volte ministro – nei governi Goria, De Mita e Andreotti alla fine degli anni ’80 – e addirittura vicepresidente del Consiglio con il D’Alema I (1998-1999). Il suo maggiore exploit fu l’invenzione del Mattarellum, dal suo nome latinizzato per burla dall’indignato politologo Giovanni Sartori. È il sistema elettorale – parte maggioritario (70 per cento), parte proporzionale (30), con sbarramento al 4 per cento – che incarna il tipico modo dc di conciliare gli opposti con un colpo al cerchio e uno alla botte. Il meccanismo fu paragonato all’ornitorinco, mammifero australiano col becco d’anatra, mani di scimmia, coda di foca. Col Mattarellum si votò tre volte, nel 1994, 1996 e 2001, con vittorie ripartite tra destra (due) e sinistra. Messo alla prova, il sistema se la cavò. Tanto che oggi, paragonato al Porcellum di Roberto Calderoli che lo sostituì, è perfino rimpianto.

Lasciato il Parlamento, Sergiuzzo dimostrò di non essere il tipo che resta appiedato senza una poltrona. Entrò subito nel Cpga, il Csm dei giudici amministrativi, incarico di nicchia, come si usa dire, ma discretamente remunerato. Poi, puntò direttamente alla Corte Costituzionale che è la più bella poltrona che ci sia. Dura nove anni, più di ogni alta carica; sei rispettato come un dio, pagato come un principe, intoccabile come un re, in un vorticare di auto blu, autisti, segretari e privilegi vari.

La nomina è stata però laboriosa. Candidato dal Pd, fu eletto il 6 ottobre 2011 dal Parlamento in seduta comune. Avrebbe dovuta farcela alla prima votazione perché c’era l’accordo col Berlusca. Ma si misero di traverso, radicali, Idv e un pezzo del Pd che voleva Luciano Violante, cioè un comunista vero invece di un ex dc. Bisognò così attendere la quarta votazione, in cui basta la maggioranza semplice. Essendo però incerti i numeri, il Pd, per sicurezza, precettò perfino una puerpera di appena due giorni, ordinandole la tassativa presenza in Aula. La ragazza, allora ancora ignota ai più, era Marianna Madia. La scheda della fatina fu quella decisiva per l’elezione. Mattarella ebbe giusto 572 voti, uno più del quorum.

Il volo di Sergiuzzo cominciò il giorno in cui Piersanti, suo fratello maggiore e presidente della Regione Sicilia, fu assassinato dalla mafia. Era il sei gennaio del 1980 e l’attentato avvenne di fronte allo studio dei Mattarella in via Libertà a Palermo. Sergio, che aveva assistito impietrito all’omicidio, soccorse il fratello che morì tra le sue braccia in ospedale. In quell’istante decise di raccogliere il testimone e continuare la tradizione politica cominciata col padre Bernardo, moroteo, più volte ministro nel dopoguerra, gran notabile che convisse senza urti con la mafia. Contrariamente a Piersanti che, infatti, ne fu ucciso e di Sergiuzzo che dell’antimafiosità ha fatto il suo vessillo corredandola di altre virtù: moralità politica, trasparenza, severità dei costumi.

Il segretario dc, De Mita, lo prese sotto la propria ala e gli spianò una carriera coi fiocchi che, da allora, antepose all’insegnamento del Diritto Parlamentare nell’Università di Palermo. Nel 1983, come sappiamo, divenne deputato e l’anno dopo fu per tre anni il plenipotenziario demitiano in Sicilia. In questa veste, inventò la figura di Leoluca Orlando facendolo sindaco di Palermo. Ce l’avrà per sempre sulla coscienza. Leoluca era ancora un placido dc ma la promozione gli dette al cervello. Divenne un compulsivo antimafioso e il prototipo di chi su questo imbastisce la carriera, finendo per accusare di connivenza perfino Giovanni Falcone.

Con gli anni ’90, comincia per Sergiuzzo la lunga marcia contro il Cav. Fu, anzi, un antemarcia poiché lo combatté prima ancora che entrasse in politica. Ministro dell’Istruzione di Andreotti, si dimise nell’istante stesso in cui il Parlamento approvò (luglio ’90) la Legge Mammì che manteneva le tre reti delle tv Fininvest, anziché ridurle a una come desiderava De Mita. Con lui, abbandonarono il governo Fracanzani, Misasi, Mannino e Martinazzoli, seguaci dell’irpino.

Quando poi, nel ’94, il Cav scese in campo, Sergiuzzo s’incattivì in quel modo cattolico, come la Bindi e Scalfaro, che non lascia scampo: con la totale consacrazione della propria vita alla distruzione del nemico. Nel ’95 ruppe con Rocco Buttiglione che, da segretario, voleva portare il Ppi nell’orbita del centrodestra e lo irrise come «el general golpista Roquito Buttillone». Negli anni in cui il Berlusca governò, definì «indecenti» le sue leggi affermando che i «ministri vanno in Parlamento solo quando c’è da votare leggi a favore del premier». Ebbe poi un travaso di bile il giorno in cui Fi entrò nel Ppe, sembrandogli sacrilego che lui della Margherita dovesse stare sotto lo stesso tetto. «È un incubo irrazionale», affermò, come se ci fossero incubi razionali. Brigò al punto che la sinistra dc uscì dal Ppe per non infettarsi. Inutile dire che tanto livore non è il migliore lasciapassare per il Quirinale.

Per concludere, Mattarella è un moralista. Come spesso accade con costoro, anche lui è inciampato. Negli anni ’90, fu rinviato a giudizio per finanziamento illecito, accusato dall’imprenditore siciliano Filippo Salamone di avere intascato cinquanta milioni di lire, più buoni benzina. Sergiuzzo giurò: «Il contributo non è mai esistito». Era falso. Messo alle strette, ammise la benzina, non i soldi. Se la cavò per il rotto della cuffia: l’imprenditore non fu creduto e i buoni, per un valore di tre milioni, furono giudicati veniali. Assolto.




Fonte: Giancarlo Perna liberoquotidiano.it

sito internet

Twitter del Viandante

 
Photography Templates | Slideshow Software