giovedì 28 novembre 2013

#Politica - Il miglior perdono è la vendetta: i conti si faranno alle elezioni. (Un articolo di Vittorio Feltri)

Ripropongo un bellissimo articolo  di Vittorio Feltri (tratto da ilGiornale), nel quale commenta con il suo inconfondibile stile, le vicende politiche (e non solo) che da vent'anni hanno come protagonista Silvio Berlusconi.

Il miglior perdono è la vendetta 
i conti si faranno alle elezioni
Votata la decadenza, ma non finisce qui. I cittadini sono arcistufi di questo linciaggio. Al momento del voto non dimenticheranno quanto di sporco è accaduto.



Ero convinto di conoscere a fondo Silvio Berlusconi, essendomi occupato di lui fin dal 1973, quando stava per ultimare Milano 2. Invece mi accorgo, con grande sorpresa, di non conoscerlo neanche superficialmente. Lo osservo da lontano e ogni giorno egli mi stupisce per come vive l'epilogo della sua avventura (meglio dire disavventura) parlamentare.

Non so dove trovi la forza per sopportare ciò che non è esagerato definire martirio, se si considera il modo in cui i suoi avversari, tra i quali numerosi ex amici (cortigiani, beneficiati), lavorano per eliminarlo: sembra che godano a stringere lentamente - molto lentamente - la vite della garrota.

Non si accontentano di farlo fuori; pretendono di trasformare - e ci riescono - l'esecuzione in uno spettacolo dell'orrore. Altro che macchina del fango. Quello che usano contro di lui è un imponente strumento di tortura affidato a un esercito di sadici, ciascuno dei quali svolge il suo compitino per rendere più macabro il linciaggio-show: comici, satirici, editorialisti di pronto intervento, politici di risulta, tifosi di alcune Procure, toghe svolazzanti, pidocchi, conduttori televisivi a scartamento ridotto con codazzo di ospiti a gettone.

Mentre il Cavaliere si batte e si dibatte per non soccombere gratis, si odono nell'arena risate, insulti da trivio, frasi d'incitamento dirette ai picadores affinché sfianchino la vittima sanguinante. Già. Vittima. Come si potrebbe diversamente definire un uomo che da venti-anni-venti viene scazzottato nei tribunali, poi condannato, poi costretto ad ascoltare il tintinnio delle manette, a leggere articoli che raccontano di magistrati intenti a predisporre il suo arresto, obbligato a schivare una pioggia di sputi? Nonostante tutto, il vecchio imprenditore e leader politico ha ancora parecchi aficionados decisi a sostenerlo a ogni costo, ma il loro sostegno (benché appassionato) e i loro applausi non possono soffocare il frastuono provocato dai detrattori animati da odio feroce.

In effetti si è sempre notato che mille esagitati progressisti fanno più baccano di diecimila borghesucci casa e chiesa, buoni tutt'al più a sfilare in processione e a salmodiare: gridare, ribaltare automobili, fracassare vetrine non è la loro specialità. Tutte cose ben note a Berlusconi che periodicamente medita di puntare sulla piazza per dimostrare quanto sia vitale il proprio popolo, ma quasi sempre vi rinuncia. L'ultima manifestazione degna di questo nome avvenne nel 2009 a Milano in piazza Duomo e chiunque ricorda quell'oggetto scagliato in faccia all'allora premier, subito ricoverato all'ospedale San Raffaele mentre l'orda antiberlusconiana scuoteva la testa delusa dal suo mancato decesso.

Questo è il clima che ha accompagnato Silvio dalla sua «discesa in campo» (espressione logora e addirittura fastidiosa) a ieri sera: nessuno sarebbe stato in grado di non cedere alla tentazione di mollare tutto e ritirarsi in luoghi più ospitali del cosiddetto Bel Paese. Lui, viceversa, è rimasto lì imperterrito a ricevere schiaffoni su schiaffoni, aiutato dalla propria presunzione (sconfinata quanto l'intraprendenza di cui occorre dargli atto). C'è da chiedersi chi gliel'abbia fatto fare. È la domanda che mi rivolgono ossessivamente lettori, passanti, avventori di bar, commensali, amici. Difficile dare una risposta soddisfacente.

Un signore straricco e famoso, protagonista dell'imprenditoria, proprietario di ville e palazzi, presidente di una società di calcio che a livello internazionale s'è aggiudicata qualsiasi trofeo, non ha bisogno della politica per sentirsi qualcuno e dare un senso all'esistenza. Non vi è un solo italiano, nemmeno quelli che lo detestano e si augurano di vederlo inchiodato alla croce, che non nutra almeno una puntina d'invidia nei suoi confronti. Un sentimento, questo, tra i più stupidi in assoluto (è solo causa di sofferenza) e che però sembra essere il motore del mondo.

Per negare a Berlusconi ogni virtù, si esaltano i suoi difetti, di cui non è certo sprovvisto. Infastidiscono il suo eccessivo ottimismo, l'inclinazione a scherzare, la propensione a sfoggiare un repertorio inesauribile di barzellette, l'ostentazione della ricchezza e delle capacità di seduttore (non solamente di donne). Ingigantendo questi aspetti negativi, fatalmente si trascurano quelli positivi che sono sovrastanti: talento speciale per gli affari, fiuto commerciale straordinario, temperamento d'acciaio, intuito sopraffino, abilità organizzativa.

Il Cavaliere è stato un fenomeno nell'edilizia, s'è inventato la tivù privata sbaragliando la Rai e altri concorrenti senza risparmiare loro badilate sui denti. In politica ha compiuto un capolavoro: in tre mesi ha messo in piedi un partito che ha stritolato i comunisti quando ancora erano comunistissimi. E di ciò non gli saremo mai abbastanza grati. I suoi denigratori affermano che egli sia portato a contornarsi di servi e di imbecilli. Fosse vero non sarebbe arrivato tanto in alto, posto che una persona da sola non può scalare l'Everest; fosse falso, tuttavia, non si spiegherebbe il ruzzolone che lo ha fatto precipitare dove adesso sta, nei paraggi della galera. Un bel dilemma. Forse la verità è nel mezzo: anche lui, per quanto dotato d'intelligenza manovriera, ha commesso degli errori che offuscano le mirabili opere realizzate in anni e anni di duro lavoro.

Ora paga un dazio sproporzionato alle sue eventuali colpe, tutte da dimostrare. L'unica certezza è la seguente: il Cavaliere ha rotto le uova nel paniere ai partiti superstiti della Prima Repubblica, impedendo loro di conquistare stabilmente il potere. Questo non glielo hanno mai perdonato. La guerra contro l'intruso scoppiò subito dopo il successo elettorale di Forza Italia, nel marzo 1994. La sinistra cercò immediatamente di delegittimarlo col conflitto di interessi (ancora irrisolto), poi lo irrise, quindi lo trasformò in bersaglio fisso. Quello che egli ha subìto è stato un bombardamento cui non si può dire non abbiano partecipato vari Pm. È stata la ricerca disperata di un motivo per eliminare il politico improvvisato, e baciato dal successo, che prima o poi non poteva portare ad altro risultato se non a quello di ieri: l'espulsione del Nemico al termine di un rito disgustosamente ammantato di legalità formale.

Anche chi ha ragione, ha sempre qualche torto nel sacco: ecco, si è tenuto conto soltanto del torto, sorvolando sulle esigenze della giustizia sostanziale. Siamo allo scempio. Alla vergogna di un Paese che, unico nell'Occidente, fa secco il capo dell'opposizione azionando la leva giudiziaria - in puro stile sovietico - anziché tentare di superarlo nelle urne. Ma la partita non finisce qui. Ci avviamo verso i tempi supplementari che garantiscono nuove polemiche e altri colpi di scena. Dal male e dalle iniquità nasceranno altro male e altre iniquità.

Berlusconi non è un fantasma, ma un uomo in carne e ossa, non ancora domo, e la sua presenza peserà nei prossimi mesi sui destini italiani. I cittadini sono arcistufi di questo osceno tormentone; quando si tratterà di votare, non dimenticheranno quanto di sporco è accaduto e metteranno in pratica un proverbio riveduto e corretto: il miglior perdono è la vendetta. Un Berlusconi martire e liquidato come un criminale minaccia di diventare assai pericoloso per la sinistra, fornendo a Forza Italia il carburante di consensi per trionfare alle elezioni.

Non s'illudano gli aguzzini - e i loro mandanti - di farla franca. Uccidere un nemico che ha tanti amici significa rischiare il peggio: di inasprire la battaglia e magari perderla.


PS: Questo articolo non è un coccodrillo, ma il preambolo di una nuova vicenda che avrà quale protagonista ancora Berlusconi. Il quale, se lo chiudessero in prigione, farebbe la campagna elettorale più travolgente della sua carriera.

sabato 23 novembre 2013

I cittadini europei chiedono la difesa della vita. La Portavoce del Comitato Italiano "Uno di noi" commenta il grande successo dell'iniziativa.

I cittadini europei chiedono la difesa della vita.
La Portavoce del Comitato Italiano "Uno di noi"
commenta il grande successo dell'iniziativa




Il superamento traboccante del milione di firme raccolte per ‘Uno di noi’ è il segno tangibile dell’alta attenzione alla questione della vita in Italia e in tutta Europa. A consegna avvenuta complessivamente sono state raccolte quasi 1 milione e novecentomila firme. «Siamo solo all’inizio, non dobbiamo cedere alla  tentazione di accontentarci di un grande risultato». Maria Grazia Colombo, portavoce del Comitato italiano della campagna “Uno di noi”, spiega che le 1.849.847 firme raccolte per il riconoscimento della dignità dell’embrione sono solo un primo passo.
L’Italia si conferma motore trainante della campagna ma il costante e inarrestabile aumento delle sottoscrizioni in tutti i Paesi dell’Unione Europea dimostra come questa iniziativa non capiti per caso ma si innesti su una connaturata sensibilità popolare per questi temi che ha trovato il modo di esplicitarsi in pienezza grazie a questa mobilitazione. Stiamo accumulando un patrimonio di coscienza e ricettività nei popoli che non va dato per scontato, né disperso dopo questa occasione. Perché parla di «novità»? «Perché il numero delle nazioni che hanno risposto positivamente alla campagna è incredibile e stupisce anche quante  adesioni alcune di queste sono riuscite a raccogliere rispetto ad altre. Anche il modo in cui si è mosso il comitato e la tipologia dei firmatari costituiscono delle novità. L’Italia è stata la nazione che ha raccolto più firme. Ma spiccano i risultati di paesi come Olanda, Lussemburgo e Romania».

Dietro ogni firma di sostegno c’è un volto, una persona che ribadisce il suo sì alla vita e più precisamente il riconoscimento della dignità umana dell’embrione. Come associazioni, movimenti, laici gridiamo dall’Europa , questa Europa, luogo così autorevole e rappresentativo di una grande storia , la nostra storia europea, gridiamo la bellezza della vita, l’affermazione della persona fatta di relazioni, riconosciuta in un popolo. Questa iniziativa da’ voce ad un popolo. Non dimentichiamolo mai !

Il Comitato Italiano "Uno di Noi" ha lanciato una sfida per tutti. Non si tratta di una difesa di valori astratti ma occasione di riflessione sulla vita, sulla famiglia, sulla società che vogliamo costruire per il futuro. La battaglia per il riconoscimento dell’embrione è una questione laica, non ideologica e di parte. Interessa l’uomo, la donna, tutti. Interpella tutti provocando una posizione a difesa della vita e della sua dignità.

Le persone rispondono, esprimono attraverso la firma ciò di cui sono fatti, escono da una solitudine di pensiero oggi molto preoccupante. Difendere la vita in ogni fase dal concepimento alla fine naturale è costruire un pezzo della nostra storia non solo italiana ma europea , di questa nostra Europa così travagliata.

La campagna "Uno di noi" pone al centro la persona, nella sua totalità e nel suo diritto a crescere, a vivere, a essere cittadino a pieno titolo del mondo. Con questa convinzione comune e condivisa è stata sostenuta questa iniziativa proposta dal Movimento per la Vita ma poi accolta da circa trenta Associazioni e i Movimenti che ad aprile hanno costituito il Comitato Uno di noi per un lavoro di strategia molto vivace e molto interessante. L’Italia associativa, della società civile ha lavorato tanto, in sinergia, in un clima di confronto, costruendo relazioni, mai di scontro. La vita è un bene prezioso che ci deve arricchire creando sempre occasioni di unità nella verità.

Così l’intuizione di un grande movimento come il Movimento per la Vita ha potuto diventare intuizione e lavoro associativo di tutti. Ci domandiamo per quale obiettivo ? Senz’altro raggiungere come è ampiamente avvenuto, il traguardo del milione di firme ma ancor più imparare a confrontarci, stimarci a vicenda lavorando per il bene comune.

Dopo il traguardo fantastico ora guardiamo con attenzione all’Europa con tutti gli altri movimenti europei, seguiremo passo dopo passo i punti previsti dalla stessa Iniziativa Cittadini Europei, quella che consideriamo la fase due della bellissima iniziativa.

Ogni firma è preziosa e non deve andare perduta a testimonianza della generosità di tutti gli Italiani. Attraverso le firme abbiamo ricevuto un mandato, si è costituito pian piano un popolo, il popolo di Uno di Noi-One of Us. Un grazie alle famiglie, alle parrocchie che sono famiglie di famiglie, alle scuole e ad ogni luogo in cui è stata fatta la proposta di una firma. Una firma che io amo definire una firma di dialogo, una firma di incontro.

Che cosa succederà ora?
La Commissione europea dovrà convalidare le firme, poi entro tre mesi respingere o accogliere la petizione ed eventualmente legiferare. Noi siamo consapevoli che le cose non possono cambiare da un giorno all’altro. Proprio per questo è importante il modo in cui abbiamo lavorato, muovendoci con le associazioni, incontrando persone, sensibilizzando e facendo rete con gli altri movimenti europei. Questa azione deve proseguire, fino a diventare la modalità normale con cui muoversi in tutta Europa. Il risultato che abbiamo ottenuto, infatti, deve essere solo l’inizio di un’azione di sollecitazione di tutti coloro che sono disposti a un dialogo sui temi che riguardano la natura profonda della sacralità della vita. Se oggi combattiamo per l’embrione, domani potremmo farlo così capillarmente anche per altre battaglie che riguardano la dignità della
persona.

Ha parlato di un gesto pedagogico. Cosa intende?
Vogliamo aiutare quanti ci hanno appoggiato con un sostegno consapevole a monitorare l’azione dei governanti. Pretendiamo considerazione dall’Europa, che non solo ha davanti quasi due milioni di sottoscrizioni, ma tantissime nazioni firmatarie. Il nostro obiettivo è ridiscutere le leggi che legalizzano l’aborto negli Stati che hanno aderito alla raccolta firme. Tutto questo va fatto, nonostante la censura ideologica da parte del mondo dell’informazione che non ci ha voluti neppure ascoltare. Infine occorre che al comitato si aggiungano tutte le categorie: per non rimanere fermi alle buone intenzioni servono il parere e l’azione comune di associazioni, movimenti ma anche di medici, giuristi e politici.


Siti utili:

giovedì 3 ottobre 2013

La truffa del cosiddetto Riscaldamento Globale Antropogenico (AGW)

Affrontiamo nuovamente il tema del riscaldamento globale, da una prospettiva alternativa a quella che voglioni imporci i media.

Riscaldamento globale? Mai stati così al freddo
di Franco Battaglia*

Mi tocca fare l'antipatico, cosa che non mi costa fatica e mi riesce pure bene: 13 anni fa scrivevo che la causa antropica del riscaldamento globale non poteva che essere un grosso granchio (una bufala, scrisse il titolista). Il fatto è che i ghiacci in entrambi i poli, massime quello antartico, si stanno espandendo, è da 12 anni che le temperature globali hanno smesso di crescere, sull'aumento del livello del mare (circostanza in atto da 18mila anni) non si osserva alcuna accelerazione, i tornadi e gli uragani sono al loro minimo storico e,piaccia o no, anche la popolazione degli orsi polari è in aumento.

Naturalmente quelli dell'Ipcc - che è un organismo politico dell'Onu mascherato da organismo scientifico - continuano col loro mantra, né possono fare altrimenti: dovrebbero restituire il premio Nobel (che, ricordiamo, fu dato loro non per la scienza ma, come si addice ad ogni soggetto politico, per la pace). Se vi chiedete perché mai la politica ha inteso costruire questo mega-inganno planetario, la risposta è: per attuare le politiche energetiche di promozione delle tecnologie eolica e fotovoltaica, che senza inganno mai sarebbero state prese in qualche considerazione. Per anni mi hanno trattato da eretico, ora i media cominciano ad aprire lentamente gli occhi. Perfino il buon Giovanni Sartori, dopo che per mezza dozzina di ferragosti ha tediato i lettori della prima pagina del Corsera con lo spettro delle venefiche emissioni di CO2, lo scorso agosto ha cominciato a ricredersi, manifestando una onestà intellettuale che è mio dovere riconoscergli visto che ne ho in cuor mio dubitato.

La procedura adottata ha indotto l’Ipcc a scegliere selettivamente le risultanze a favore della ipotesi da provare. Ma il metodo scientifico, funziona diversamente. Al cospetto di un’ipotesi, bisogna invece procedere col formulare l’ipotesi nulla – cioè l’ipotesi che nega l’ipotesi che si vuole controllare – e cercare di falsificarla; solo se si riesce a falsificare l’ipotesi nulla allora si accetta l’ipotesi che interessa. Nel caso specifico, bisognerebbe falsificare la seguente affermazione: il clima odierno è d’origine naturale. Procedendo secondo i canoni del metodo scientifico, facciamo allora vedere che quest’ultima ipotesi non viene falsificata e adduciamo alcune circostanze e ricordiamo perché possiamo avere la certezza che le emissioni antropiche di CO2 non hanno alcuna influenza sul clima:

  1. Primo, il pianeta è stato più caldo di oggi nel periodo caldo medievale. I dati geologici ci informano che la storia climatica della Terra è quella di un pianeta essenzialmente freddo, che vive ogni 100.000 anni periodi di optimum climatico. Noi viviamo in un tale periodo, ma tutti i precedenti periodi di optimum climatico sono stati più caldi di quello odierno: siamo in un optimum climatico che, manco a farlo apposta, non è mai stato così freddo! Il clima dei precedenti periodi caldi, più caldi dell’odierno, non possono che essere stati di origine naturale.
  2. Secondo, non da 100 anni (con l'industrializzazione), ma è da 400 anni che il pianeta si sta scaldando, perché sta uscendo dalla piccola era glaciale che ha avuto il suo minimo nel XVII secolo. L’attuale riscaldamento globale non si è avviato un secolo fa in concomitanza con le emissioni di Co2, ma ben 4 secoli fa, quando il pianeta era al minimo della cosiddetta Piccola Era Glaciale (Peg). (Gli astrofisici lo chiamano Minimo di Maunder, corrispondente ad un minimo d’attività solare). Intorno al 1650, il pianeta ha cominciato a scaldarsi e ad uscire dalla Peg, e ha continuato a farlo, con varie oscillazioni, fino ai giorni nostri. Non a caso si sente spesso dire dai media che è da 400 anni che non si registrano temperature alte come quelle odierne. Appunto: 400 anni fa si era nel pieno della Peg. L’uscita dalla Peg è cominciata 400 anni fa, e pertanto non può che essere stata di origine naturale.
  3. Terzo, questo riscaldamento ha avuto un arresto tra il 1940 e il 1975, proprio in pieno boom demografico, industriale e di emissioni.  L’uscita dalla Peg non è stato un processo monotòno ma, piuttosto, l’aumento della temperatura ha subìto arresti e inversioni. 
  4. Quarto, come già accennato, un altro arresto lo sta avendo da 12 anni, con le emissioni che hanno continuato a crescere esponenzialmente, con le temperature globali che hanno smesso di crescere. Ancora una volta, il clima del pianeta è governato da fenomeni naturali, visto che si è raffreddato proprio quando le emissioni di gas-serra sono state ai loro massimi.
  5. Quinto, dei periodi caldi che il pianeta vive, interrompendo ogni 100mila anni la fase glaciale, questo nostro è, manco a farlo apposta, proprio il più freddo di tutti. L'Ipcc se ne faccia una ragione.
Vi sono un mucchio d’altre cose che andrebbero dette. Ad esempio, l’aumento del livello del mare per il quale si fa tanto allarme, è in realtà un fenomeno naturale, in atto da 18.000 anni, cioè da quando il pianta cominciò a uscire dall’ultima era glaciale. Un effetto della Co2, allora, dovrebbe far registrare un’accelerazione in questo aumento: ma nessuna accelerazione si osserva rispetto agli aumenti occorsi nel periodo pre-industriale. E altre cose ancora, ma i punti precedenti sono sufficienti: ogni tentativo di sconfessare l’ipotesi nulla ha fallito.

Possiamo dire allora con certezza che, anche se il Gw (riscaldamento globale) esiste, l’Agw (riscaldamento globale antropogenico) non esiste. Come mai nacque? Bisogna sapere che esistono ragioni tecniche incontrovertibili per le quali si può essere certi che le tecnologie di produzione elettrica eolica o fotovoltaica sono un colossale fallimento e che implementarle comporterebbe un danno economico faraonico con conseguente crisi economica. Solo inventandosi una circostanza secondo cui solo affidandosi a tali tecnologie si scongiurerebbe un danno ancora maggiore, sarebbe stato possibile implementare quelle tecnologie. L’Agw è stato il cavallo di Troia che ha permesso l’attuazione di politiche energetiche volte all’affermazione di quelle tecnologie fallimentari. Tale affermazione si è realizzata, le tecnologie in parola stanno dimostrando di essere quel fallimento che era perfettamente prevedibile (l’impegno economico in esse è la probabile prima causa della grave crisi economica: si pensi che solo per foraggiare la tecnologia fotovoltaica gli utenti elettrici italiani stanno pagando, e continueranno a farlo per 20 anni, 12 miliardi di euro), e nessuna catastrofe climatica è stata evitata perché non v’era alcuna catastrofe da evitare.







*Professore di Chimica Ambientale all'Università di Modena. Co-autore del rapporto NIPCC "Climate Change Reconsidered II"

mercoledì 2 ottobre 2013

La politica con la p minuscola.

Viene da mettersi le mani nei capelli a guardare la situazione politica italiana. In un momento in cui dovremmo unire le forze e sentirci tutti italiani crescono le divisioni. La sinistra è divisa da mesi in Renziani, Bersaniani, Dalemiani, Vendoliani, Veltroniani e chi più ne ha, più ne metta. A destra la situazione sembrava migliore ma si sta compiendo in queste ore la spaccatura, in Falchi e Colombe, di quello che fu il pdl, per una questione di bassissimo profilo come le poltrone cui le cosiddette colombe non vogliono rinunciare.

Al paese servirebbe la Politica, quella con la P maiuscola. Una Politica che dia risposte al paese e non rinvii come il governo Letta che non ha saputo (o voluto?) risolvere la questione IVA/IMU. Una Politica in grado di sburocratizzare e snellire un paese ormai bloccato da anni di immobilismo. Una Politica che tagli i costi di uno stato sprecone. Una Politica che aiuti le imprese anziché soffocarle o farle fuggire all'estero per una tassazione insopportabile ed ingiusta. Una Politica che sostenga le famiglie (sì le famiglie, il centro di qualunque società civile, il motore della società) alle prese con una crisi di cui non si vede la fine.

Invece assistiamo ai giochi di un PD che non vuole essere rottamato da Renzi, che vuole ad ogni costo l'esclusione dalla politica del proprio avversario di sempre, l'odiato Berlusconi e che non vuole prendersi l'impegno di abbassare l'imposizione fiscale (da qui i rinvii di Letta, il non voler a nessun costo trovare coperture per l'eliminazione dell'IMU e il mantenimento dell'IVA al 21%).

E dall'altro lato assistiamo ad un indegno gioco di trasformismo da prima repubblica da parte dei ministri Pdl (Alfano, Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Gaetano Quagliariello) e di un cospicuo gruppo di parlamentari (evidentemente a Roma le poltrone devono essere molto comode). Pronti quindi costoro a dividere il centrodestra (e tradire il mandato elettorale) pur di mantenere in vita il loro governo, indifferenti al bene del Paese e degli italiani.

Siamo sicuri che al paese serva un governo dei rinvii, del non fare, del sopravvivere? No, non lo siamo, io non lo sono, l'unica via è il ritorno al giudizio del popolo e forse, ad una politica con la P maiuscola. Forse.




domenica 29 settembre 2013

Commento di Padre Livio riguardo la presunta luminescenza di una statuetta della Madonna di Lourdes a Medjugorje.

Commento di Padre Livio (direttore di Radio Maria) del 26 settembre riguardo la presunta luminescenza di una statuetta della Madonna di Lourdes a Medjugorje:

Cari amici,
alcuni di voi mi hanno chiesto un parere sulla statua della Madonna di Lourdes, situata nella casa natale di Vicka (ora non più abitata, ma aperta ai visitatori), che al buio emana una luce verdastra dal manto e dalla veste bianca, ma non dal volto e dalla mani (color rosato), dalla fascia blu, dalla corona del rosario e dalla corona sopra il capo ( color giallo).
Non appena ho visto questa figura in internet mi è sembrato qualcosa di banale, senza capo e senza coda. Un artefatto umano e non un segno dal cielo. Che cosa può significare il chiarore notturno di una statua in un posto dove la Regina del Cielo scende viva ogni giorno in mezzo a noi? Non ci sono forse abbastanza segni del soprannaturale a Medjugorje? Non ci basta il segno della preghiera, delle conversioni, dei sublimi messaggi, del volto dei veggenti in estasi? Tutti segni che portano ad aprire il cuore a Dio.
Ho sentito subito squillare l'allarme dentro di me. Che cosa provocano queste cose se non la curiosità umana e lo sviamento dei fedeli da quell'essenziale che la Madonna ci indica?
Questo fenomeno ha la sua logica spiegazione umana e Dio non voglia che sia un inganno studiato da menti perverse per burlarsi delle apparizioni e dei fedeli che accorrono.
Nei 28 anni che frequento Medjugorje, come fedele della Gospa, ma anche come attento osservatore, ho visto infiniti inganni del demonio in cui molti sono caduti. Hanno abbondato i profittatori e gli speculatori, che hanno cercato di far mercato sulla buona fede del popolo semplice. Stiamo lontani da tutto ciò. Attendiamo con gioia e costanza alla indilazionabile opera della nostra conversione.
Quella meravigliosa Donna che i veggenti contemplano con gli occhi della carne, noi tutti possiamo contemplarla con gli occhi del cuore.
Vostro Padre Livio

Commento audio di Padre Livio sulla presunta statuetta fosforescente.

Lettera inviata da un ascoltatore a Radio Maria in data 28 settembre:
Rev.do P. Livio
Ho riconosciuto la statua della Madonna che si illumina a Medjugorie, perché io ne ho una esattamente uguale. E' una statua di gesso fabbricata da un'azienda di Lourdes ed è trattata con una vernice luminescente che al buio le rende visibile
il mantello. La ringrazio per la sua attenzione. Cordiali saluti.
M.C
Un ulteriore commento di Padre Livio del 28 settembre:

Cari amici, a causa del clamore suscitato dai mass media e dal web, era necessario che i nostri ascoltatori venissero correttamente informati sul fenomeno "statua fosforescente", che ha improvvisamente attirato migliaia di pellegrini a Medjugorje. L'Autorità Ecclesiastica, che veglia sulla retta devozione alla Madonna, provvederà certamente a esaminare il caso e a dare quelle disposizioni a cui tutti dovranno cordialmente aderire. Nel frattempo ognuno cammini sulla via sicura della pratica dei Sacramenti, Penitenza e Eucaristia, senza cedere a vane curiosità.
vostro Padre Livio


lunedì 16 settembre 2013

Il racconto di Domenico Quirico sulla sua prigionia in Siria: "Credevo mi avrebbero ucciso, la Siria è in mano al demonio".

Riportiamo dal sito de La Stampa, il racconto di Domenico Quirico sulla sua prigionia in Siria:

Il racconto di Domenico Quirico
“Io, tra bombe, fughe e umiliazioni”

La prigionia lunga 152 giorni: 
«Credevo mi avrebbero ucciso, 
la Siria è in mano al demonio»


La notte era dolce come il vino: l’8 aprile ad al Qusayr, Siria, per raccontare un altro capitolo della guerra siriana, dove la Primavera della rivoluzione sembrava poter durare per sempre e capovolgere il mondo. E invece sono stati 152 giorni di prigionia, piccole camere buie dove combattere contro il tempo e la paura e le umiliazioni, la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite, il silenzio; di Dio, della famiglia, degli altri, della vita. Ostaggio in Siria, tradito dalla rivoluzione che non è più ed è diventata fanatismo e lavoro di briganti. L’ostaggio piange e qui tutti ridono del suo dolore, considerato come prova di debolezza. La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce come gli acini dell’uva sotto il sole d’Oriente. E dispiega tutti i suoi stati; l’avidità, l’odio, il fanatismo, l’assenza di ogni misericordia, dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi. I miei sequestratori pregavano il loro Dio stando accanto a me, il loro prigioniero dolente, soddisfatti, senza rimorsi e attenti al rito: cosa dicevano al loro Dio?

Il racconto integrale  

Siamo entrati in Siria il 6 aprile con il consenso e sotto la protezione dell’Armata siriana libera, come tutte le volte precedenti. Ho cercato di raggiungere Damasco e di verificare di persona le notizie sulla battaglia decisiva di questa guerra civile, come faccio sempre. Ma ci hanno detto che avremmo dovuto aspettare alcuni giorni prima di poter raggiungere la capitale siriana e così abbiamo accettato la proposta di andare in una città che si chiama Al Qusayr, vicina al confine libanese, che in quei giorni era assediata da Hezbollah, fedele alleato del regime di Assad.

Siamo arrivati ad Al Qusayr con un convoglio di rifornimenti della stessa Armata siriana libera, un lungo viaggio nella notte a fari spenti passando sulle montagne perché il regime controllava la strada. Siamo stati bombardati da un Mig vicino a un Ticunin, un mulino dell’epoca bizantina. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati. Lì si è combattuta la battaglia fra Ramses II e gli Ittiti. Lì la storia è ovunque, nelle colline, nelle pietre. La città era già devastata e distrutta dai bombardamenti dell’aviazione e così la sera successiva abbiamo deciso di tornare dal luogo in cui eravamo partiti per sapere se era possibile intraprendere il viaggio verso Damasco. fidati. Invece probabilmente sono stati loro a tradirci e a venderci. All’uscita della città siamo stati affrontati da due pick-up con a bordo uomini con il viso coperto. Ci hanno fatto salire sui loro mezzi, poi ci hanno portato in una casa e ci hanno picchiato sostenendo di essere uomini della polizia di regime. Nei giorni successivi invece abbiamo scoperto che non era vero, perché erano dei ferventi islamisti che pregavano cinque volte al giorno il loro Dio in modo flautato e dotto. Poi, il venerdì hanno ascoltato la predica di un predicatore che sosteneva la jihad contro Assad. Ma la prova decisiva l’abbiamo avuta quando siamo stati bombardati dall’aviazione: era chiaro che quelli che ci tenevano in ostaggio erano ribelli.

L’emiro Abu Omar  

L’ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più dimenticati dalla mafia di regime. L’Occidente si fida di loro ma ho imparato a mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l’emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.

La prima prigione  

Inizialmente ci hanno tenuto in una casa di campagna alla periferia della città di Al Qusayr. Siamo rimasti lì per una ventina di giorni. Poi è accaduto il primo fatto terribile di quella che io chiamo la matrioska di questa storia, un evento all’interno di un altro evento: Hezbollah ha attaccato le posizioni dei ribelli e l’edificio in cui eravamo prigionieri è diventato la prima linea. È stato bombardato e attaccato. A quel punto ci hanno portato in un’altra casa, all’interno della città. Ma era come se il destino si accanisse contro di noi e continuamente ci ponesse nuovi terribili scenari, come se ci ricacciasse sempre indietro, sempre più lontano dalla prospettiva di essere liberati. Alla fine anche questa casa è stata attaccata e per una settimana siamo stati affidati ad una brigata di Jabat Al Nusra, l’Al Qaeda siriana. È stato l’unico momento in cui siamo stati trattati come esseri umani, per certi aspetti persino con simpatia: ad esempio ci hanno dato da mangiare le stesse cose che mangiavano loro. I qaedisti in guerra fanno una vita molto ascetica e sono dei guerrieri radicali, islamisti fanatici che si propongono di costruire uno stato islamico in Siria e poi in tutto il Medio Oriente, ma nei confronti dei loro nemici - perché noi, cristiani, occidentali, siamo loro nemici - hanno un senso di onore e di rispetto. Al Nusra è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche degli americani ma sono gli unici che ci hanno rispettato. Poi siamo tornati nelle mani di Abu Omar.

La fuga da Al Qusayr  

Al Qusayr era sotto assedio e diventava ogni giorno sempre più piccola, veniva demolita mattone su mattone. All’inizio di giugno l’assedio stava per finire con la vittoria degli Hezbollah. Intorno al 9 del mese tutte le varie fazioni della ribellione (fra cui anche la «katiba» di Abu Omar), hanno deciso di sfondare le linee nemiche insieme alla popolazione per provare a fuggire in un altro luogo della Siria. Incredibilmente ce l’hanno, ce l’abbiamo, fatta. È stata un’epopea straordinaria e terribile, con uomini, donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore, per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone. Durante la marcia sui ciottoli questa folla faceva un rumore sordo, come se a spostarsi fosse un unico corpo. Quando i razzi lanciati dai soldati del regime per permettere all’artiglieria e alle mitragliatrici di colpirli illuminavano la scena, la campagna diventava abbagliante e tutte queste migliaia di persone si gettavano a terra improvvisamente creando un silenzio incredibile. Subito dopo, quando i razzi, che scendono lentissimi, si spegnevano per terra, tutta la folla si rialzava e riprendeva il cammino lasciando dietro di sé la catena dei morti.

Pesche acerbe  

Alla fine della prima notte l’esercito è riuscito a bloccare l’avanzata e tutte queste persone si sono disperse nei frutteti e nei campi, senz’acqua e senza cibo, aspettando un’altra notte per tentare di proseguire. Non c’era nulla da mangiare. C’erano solo le pesche degli alberi, che essendo giugno erano ancora lontane dall’essere mature. Ci siamo nutriti schiacciandole e mangiando la parte più interna e il nocciolo, che erano abbastanza molli. C’erano anche alcuni vecchi personaggi omerici che si avviavano da soli verso le linee dell’esercito di Bashar e venivano falciati dalle mitragliatrici. Ma la cosa più straordinaria è stata che all’imbrunire, quando è scesa la sera, tutto questo popolo si è fermato e ha pregato. E gli uomini di Abu Omar hanno incrociato due kalashnikov davanti alle fila dei combattenti per intonare una preghiera della guerra. Il canto modulato si è levato sui campi sui boschi per chiedere a Dio di vincere la guerra, di uccidere i loro nemici. Dopodiché questa gente si è avviata verso il nemico, ha sfondato le linee e incredibilmente è avanzata oltre i soldati.

Verso Homs  

Siamo scesi verso Homs dall’altopiano. Io credo di aver pensato di sognare, che non fosse una scena reale. Nella notte stavamo camminando verso questa grande città, la città nella quale è iniziata la rivoluzione. Una parte della città era già stata distrutta dai bombardamenti ed era vuota, l’altra parte invece era ancora abitata e i combattimenti continuavano. Per uno strano e incredibile effetto ottico l’immensa distesa di queste case bianche si proiettava al contrario verso il cielo: una parte, quella distrutta, aveva la fissità e il silenzio di un cimitero, di una tomba, l’altra invece era tutta luce, scoppi, razzi e rumori. Siamo scesi verso la pianura di Homs. Camminavamo in mezzo a due colonne di fuoco circondati da ombre: la gente correva tenendosi bassa perché le mitragliatrici tiravano ad altezza uomo, inciampavamo sui morti, finché alla fine non siamo arrivati in una piccola città di cemento, una delle tante piccole orribili città della Siria, mal costruite, approssimative.

Come Ulisse  

Dopo quella notte ci hanno riportato nella città in cui era iniziato il nostro viaggio, come in una sorta di Odissea. Ulisse va verso Itaca, vede la sua casa, la sua isola là in fondo, ma il Dio feroce, implacabile, il destino, si accanisce contro di lui e una tempesta lo ricaccia indietro e quella è la sua condanna. A noi è successa la stessa cosa. Tornati a Reabruc, la città da cui eravamo partiti, ci hanno venduto al gruppo di Al Faruk. Il vortice è ripreso perché dopo due giorni ci hanno detto che ci avrebbero portato verso nord, verso il confine con la Turchia, e che ci avrebbero liberato. Abbiamo trascorso due notti in viaggio su questi pick-up sulle strade di montagna, con gli autisti che ogni tanto guardavano con il cannocchiale a infrarossi se i militari preparassero agguati sulla strada. Dopo la seconda notte di viaggio al freddo dentro il cassone del pick-up, ricoperti di polvere, siamo arrivati nella zona di Idlib, dove ci hanno tenuto per altre tre o quattro settimane in una base militare. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati come quello degli Ittiti... Il capo dei sequestratori si faceva chiamare Abu Omar. Copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite Noi lo chiamavamo l’infame.

La telefonata  

Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva fingere di essere nostro amico per ingannare un po’ anche la gente che era lì intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo telefonino mentendo e dicendo che non c’era campo, che non si poteva telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell’Esercito siriano libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un telefonino e me l’ha dato davanti a lui. È stato l’unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po’ troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell’urlo disperato che ho sentito dall’altra parte, la linea è caduta.

La prigionia  

Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos’è l’umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.

I tentativi di fuga  

La prima volta, il nostro custode probabilmente quella sera si era addormentato, siamo usciti dalla casa e ci siamo diretti verso delle luci,pensavamo fosse AlQusayr. Dopo duecento metri ci hanno ricatturati. La seconda volta invece, eravamo in un’altra località, nell’ultimo periodo della nostra detenzione. Abbiamo approfittato della distrazione di questi quattro ragazzi, che la sera spesso non badavano alle loro cose, ai loro giubbotti con i caricatori, ai kalashnikov, abbandonati vicino alla nostra stanza. Abbiamo preso due granate, pensando di utilizzarle per aprirci la strada. Le ho nascoste sotto un sofà distrutto. Pensavamo di sorprenderli, prender loro un telefonino, telefonare a casa, in Italia, per farci guidare in questa fuga. Purtroppo, o per fortuna, perché credo che un simile tentativo mi avrebbe creato enormi problemi morali, la cosa non è andata in porto. Ma una sera non hanno chiuso con la catena la porta della casa, siamo usciti, dopo aver preso i due kalashnikov, siamo fuggiti verso il confine di Bab al Hawa. Conoscevo quella zona, perché ci ero stato a gennaio.

Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma abbiamo scoperto che c’erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un’auto col kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino. Ma c’era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti possono più vendere. È l’orribile legge dell’ostaggio.

Le cose semplici della vita  

Una volta ho parlato con Georges Malbrunot, giornalista del «Figaro» che è stato forse uno dei più celebri ostaggi, molti anni fa, durante la guerra Iraq-Iran. Credo che sia stato ostaggio quattro mesi, in condizioni forse addirittura peggiori delle mie, in una grotta. E raccontava questa depauperizzazione di tutto ciò che uno è, che sono le scarpe, i vestiti... Io sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi. Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole che tramonta. E poi l’impossibilità di fare tutte le cose che costituiscono la vita: camminare, muoversi, incontrare altre persone, scrivere leggere, guardare il paesaggio, sognare di fare delle cose che poi magari non fai, che sono il tuo modo di vivere. Io per cinque mesi ho vegetato, nel senso stretto della parola, cinque mesi in cui mi è stata succhiata la vita ed è stata sostituita con qualche cosa di artificiale, che è essere un oggetto e lottare contro il tempo. Ho imparato il carattere straordinario di alcune cose semplici, come un bicchiere d’acqua fresca. E poi vedere il sole, perché le finestrelle erano piccole e spesso c’era l’oscurità totale. Camminare, parlare con qualcuno che non fosse sempre questo mio compagno di sventura. E meno male che c’era, perché altrimenti sarei impazzito.

I carcerieri Erano di un gruppo che si professa islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer, vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la televisione ma l’informazione era l’ultima cosa che gli interessava. Solo filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui tutto è permesso...

Le finte esecuzioni  

Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti vergogni... io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij... ti viene una rabbia perla paura che hai, senti che l’uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po’ come quando i bambini, che sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe alle formiche. La stessa ferocia terribile.

Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in Italia» per vedere poi la nostra disperazione... perché aggiungevano una parola... Inshallah... che è il loro modo di mentire senza avere il senso di mentire, inshallah, è successo... Dicevano continuamente «bukrah» che vuole dire domani... poi l’indomani non partiva nessuno. Un gioco veramente crudele, ma negli ultimi tempi quando ci dicevano così noi a nostra volta rispondevamo: «inshallah...» per far capire che avevamo capito. Alla fine, domenica, ho sentito che sarebbe stata la volta buona. Forse per bruciare le piste, abbiamo praticamente attraversato tutto il paese, fin quasi a Deir Azor, nel grande deserto siriano. Ci siamo fermati in una città di cui non saprei dire il nome e poi siamo tornati indietro rifacendo la stessa strada. Una sorta di depistaggio. E poi siamo stati liberati. E questa volta non era Inshallah. Ci hanno fatto scendere dalle macchine dall’altra parte del confine, dicendo di camminare. Confesso di aver pensato che ci avrebbero sparato nella schiena, era buio, era notte, domenica dopo il tramonto. Ho pensato che se avessi sentito il rumore del caricatore mi sarei buttato per terra. Ero sicuro che mi avrebbero eliminato, avevamo visto le loro facce, sapevamo i loro nomi. E invece nessuno ha caricato il kalashnikov. E poi ho sentito voci italiane. Inshallah, questa volta era la volta buona.

I libri  

Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro. Due libri di un autore che sciaguratamente oggi è stato dimenticato, Erich Maria Remarque, due opere forse un po’ minori «Tempo di vivere, tempo di morire» e «La via del ritorno» che è la storia del ritorno di alcuni reduci tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Un po’ il simbolo anche della mia via del ritorno che non riuscivo a trovare. Norman Mailer, «Il nudo e il morto» e poi «Delitto e castigo» di Dostoevskij. Li ho letti e riletti. Posso raccontare tutti i personaggi, recitarli all’indietro. Li ho portati dietro di me con fatica perché pesavano, ho marciato con loro per due notti e per due giorni durante la ritirata di Al Qusayr. Me li hanno sequestrati l’ultimo giorno. I libri ti parlano. Ma per un certo periodo non mi hanno parlato più, scorrevano le parole, le storie i personaggi... Se farò altri viaggi del genere mi porterò sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto lunghi... aiuta.

La fede  

In tutta questa esperienza c’è molto Dio. Pierre Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L’avevo quasi finito, mancavano due pagine. L’ultimo giorno me l’hanno preso. Mi è servito soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.

giovedì 12 settembre 2013

Lettera di Bernardo Caprotti al Corriere: "Com'è difficile fare impresa in Italia."

Riportiamo l'ironica quanto amara lettera al Corriere della Sera di Bernardo Caprotti (patron di Esselunga) che, spiega cosa permette alla sua creatura di andare avanti. Pur in mezzo a tasse, leggi e «concorrenti politici» avversi. La lettera segue un editoriale in cui Riccardo Franco Levi, dopo aver tessuto le lodi di tre aziende italiane (Luxottica, Armani ed Esselunga), ha espresso preoccupazione per la loro sorte alla luce della «realtà anagrafica» dei rispettivi numeri uno: quasi ottant’anni per Leonardo Del Vecchio e Giorgio Armani, novanta per Caprotti. 

Caprotti: com’è difficile fare impresa 
Dal ’70 aspettiamo un’autorizzazione
Forse apriremo a Firenze l’anno prossimo. Dopo 43 anni



Bernardo Caprotti, 87 anni, fondatore del gruppo Esselunga
Caro direttore,

ho letto il bell’articolo del professor Ricardo Franco Levi sul Suo giornale dell’8 settembre. Non posso che ringraziarvi per le lusinghiere espressioni usate nei riguardi di Esselunga e del sottoscritto. Tuttavia vorrei permettermi un’osservazione.
Le tre aziende scelte dall’autore non costituiscono un campione appropriato. Mettere Esselunga - e dunque me - accanto ad Armani e Luxottica è azzardato. Meglio sarebbe stato scegliere Ferrero.
Esselunga è una piccola azienda, piccolissima nel suo settore, è solo una multiprovinciale, non ha un centesimo di attività fuori dai confini nazionali. Ove Luxottica, coi suoi centri di produzione in Cina, i suoi 6.000 negozi sparsi nel mondo è un gigante vicino al quale noi non possiamo stare. Del pari Armani, che è un genio a livello mondiale, con investimenti grandiosi anche fuori dal suo campo d’origine. Noi dunque siamo un’azienda di qui, una multiprovinciale che neppure riesce ad insediarsi a Genova o a Modena, per non dire di Roma ove io poco, ma i nostri urbanisti si sono recati forse 2.000 volte in dodici anni nel tentativo di superare ostacoli di ogni genere, per incontrare adesso il niet del nuovo sindaco del quale si può dire soltanto che è un po’ «opinionated».

Noi, diversamente da Luxottica, Ferrero, Pirelli, Squinzi, Bombassei, Calzedonia, siamo un’impresa al 100% italiana (Pirelli, credo, italiana al 17%). E come tale un’impresa che deve difendersi dalla Pa (pubblica amministrazione) in tutte le sue forme e a tutti i suoi fantasiosi livelli ogni giorno che Dio comanda. Tassata al 60%, non più minimamente libera di scegliersi i collaboratori (la signora Fornero ha «garantito» anche i soggetti assunti in prova), Esselunga si trascina. Porta ancora avanti vecchi progetti, cose nelle quali, incredibile dictu, si era impegnata ancora al tempo delle lire.

Per realizzare un punto vendita occorrono mediamente da otto a quattordici anni. Ma per Legnano ventiquattro; mentre a Firenze forse apriremo l’anno prossimo un Esselunga di là d’Arno, una iniziativa partita nel 1970! Così, ultimamente, abbiamo cancellato ogni nuovo progetto. Ecco, caro direttore, la pallida risposta di un’azienda che di problemi ne ha troppi, che si avventura ogni giorno in una giungla di norme, regole, controlli, ingiunzioni, termini, divieti che cambiano continuamente col cambiare delle leggi, dei funzionari, dei potenti. Uno slalom gigante con le porte che vengono spostate mentre scendi. Un’azienda affondata nelle sabbie mobili italiane. Oberata da un esiziale carico fiscale atto solo a sostenere tutto ciò che nel paese è sovvenzionato. Cioè quasi tutto. Diversamente da Armani e Luxottica che hanno «creato», noi abbiamo soltanto cercato di dare un po’ di eleganza, di efficienza, di carattere ad un mestiere assai umile. A livello internazionale ciò ci è riconosciuto. Ma nel paese non siamo ben accolti.

E per soprammercato facciamo un mestiere che nel nostro stranissimo paese è politico. Perché? Perché sono «politici» i due più grandi operatori nazionali. Fuori non riescono neppure a capirlo. Ma sono tante le cose che gli stranieri non possono capire di noi, di un paese che se fosse rimasto libero e normale avrebbe potuto andare chissà dove. Imprenditori straordinari fecero nel dopoguerra aziende straordinarie. Ma gli imprenditori sarebbero poi diventati tutti incapaci, a meno che non se ne fossero andati ad operare altrove. Ma noi non possiamo. Peccato non si possa dire: «hic manebimus optime».

venerdì 6 settembre 2013

Lettera di #PapaFrancesco a Vladimir Putin in occasione del vertice del G20 di San Pietroburgo

LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AL PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA, 
S.E. IL SIG. VLADIMIR PUTIN, 
IN OCCASIONE DEL VERTICE DEL G20 DI SAN PIETROBURGO



 A Sua Eccellenza
Il Sig. Vladimir PUTIN 
Presidente della Federazione Russa

Nell’anno in corso, Ella ha l’onore e la responsabilità di presiedere il Gruppo delle venti più grandi economie mondiali. Sono consapevole che la Federazione Russa ha partecipato a tale Gruppo sin dalla sua creazione e ha svolto sempre un ruolo positivo nella promozione della governabilità delle finanze mondiali, profondamente colpite dalla crisi iniziata nel 2008.

Il contesto attuale, altamente interdipendente, esige una cornice finanziaria mondiale, con proprie regole giuste e chiare, per conseguire un mondo più equo e solidale, in cui sia possibile sconfiggere la fame, offrire a tutti un lavoro degno, un’abitazione decorosa e la necessaria assistenza sanitaria. La Sua presidenza del G20 per l’anno in corso ha assunto l’impegno di consolidare la riforma delle organizzazioni finanziarie internazionali e di arrivare ad un consenso sugli standard finanziari adatti alle circostanze odierne. Ciononostante, l’economia mondiale potrà svilupparsi realmente nella misura in cui sarà in grado di consentire una vita degna a tutti gli esseri umani, dai più anziani ai bambini ancora nel grembo materno, non solo ai cittadini dei Paesi membri del G20, ma ad ogni abitante della Terra, persino a coloro che si trovano nelle situazioni sociali più difficili o nei luoghi più sperduti.

In quest’ottica, appare chiaro che nella vita dei popoli i conflitti armati costituiscono sempre la deliberata negazione di ogni possibile concordia internazionale, creando divisioni profonde e laceranti ferite che richiedono molti anni per rimarginarsi. Le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data, quali sono, per esempio, i Millennium Development Goals. Purtroppo, i molti conflitti armati che ancora oggi affliggono il mondo ci presentano, ogni giorno, una drammatica immagine di miseria, fame, malattie e morte. Infatti, senza pace non c’è alcun tipo di sviluppo economico. La violenza non porta mai alla pace condizione necessaria per tale sviluppo.

L’incontro dei Capi di Stato e di Governo delle venti maggiori economie, che rappresentano due terzi della popolazione e il 90% del PIL mondiale, non ha la sicurezza internazionale come suo scopo principale. Tuttavia, non potrà far a meno di riflettere sulla situazione in Medio Oriente e in particolare in Siria. Purtroppo, duole costatare che troppi interessi di parte hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di trovare una soluzione che evitasse l’inutile massacro a cui stiamo assistendo. I leader degli Stati del G20 non rimangano inerti di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace. A tutti loro, e a ciascuno di loro, rivolgo un sentito appello perché aiutino a trovare vie per superare le diverse contrapposizioni e abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare. Ci sia, piuttosto, un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale. Inoltre, è un dovere morale di tutti i Governi del mondo favorire ogni iniziativa volta a promuovere l’assistenza umanitaria a coloro che soffrono a causa del conflitto dentro e fuori dal Paese.

Signor Presidente, sperando che queste riflessioni possano costituire un valido contributo spirituale al vostro incontro, prego per un esito fruttuoso dei lavori del G20. Invoco abbondanti benedizioni sul Vertice di San Pietroburgo, su tutti i partecipanti, sui cittadini di tutti gli Stati membri e su tutte le attività e gli impegni della Presidenza Russa del G20 nell’anno 2013.

Nel chiederLe di pregare per me, profitto dell’opportunità per esprimere, Signor Presidente, i miei più alti sentimenti di stima.

Dal Vaticano, 4 settembre 2013



FRANCESCO



mercoledì 7 agosto 2013

#ProLife - Inchiesta: Cinquanta domande e risposte sull'aborto.

50 DOMANDE E RISPOSTE SULL’ABORTO

Prefazione

In ogni civiltà degna di questo nome, e tanto più in una na­zione che ha conosciuto e abbracciato il Cristianesimo, il po­polo dovrebbe intervenire con vigore e tenacia sulle autorità, esigendo da loro che proteggano, con la pienezza del loro po­tere, la vita di tutti i cittadini innocenti: non solo quelli già nati ma anche i nascituri.
Invece, sul problema dell'aborto pesa una generale con­giura del silenzio, ordita dai nemici della vita, che estingue sul nascere ogni reazione o perlomeno le impedisce di ottenere ri­sultati considerevoli. Questo silenzio svolge il ruolo di un ane­stetico per assopire le coscienze, distogliendole dalla «strage degli innocenti» iniziata in Italia nel 1978 con l'approvazione della famigerata legge n. 194 che ha legalizzato l'aborto. Que­sto silenzio non viene rotto nemmeno quando bisognerebbe fare un bilancio e un vaglio critico dell'applicazione della leg­ge abortista. Con il passare degli anni, le coscienze degli italia­ni, anche di tanti cattolici, si stanno abituando all'aborto, per­lomeno considerandolo come una cosa «inevitabile»; e, come si sa, sulle cose inevitabili il giudizio morale tende ad astenersi e in fin dei conti a giustificarle.
Il nostro articolo intende contribuire a rompere la congiu­ra del silenzio e a risvegliare le coscienze, preparando una ne­cessaria riscossa pubblica che non sia più solo e genericamente «in difesa della vita», ma anche e specificamente contro l'aborto.
Facendo seguito ai ripetuti appelli di papa Giovanni Paolo II, ribaditi anche da papa Benedetto XVI, proclamiamo la ne­cessità di unire le forze ancora vigili per organizzare una gran­de Crociata per la vita. In questa battaglia epocale, la nostra arma più grande è la verità: quella verità donataci dallo stesso Dio che ci ha donato la vita, quella «verità che ci farà liberi» (Gv. 8, 32). Questo opuscolo ci arma con le verità che ci per­mettono di vincere i sofismi degli abortisti, opponendo slogan a slogan. La sua lettura è utile non solo a coloro che condivido­no l'impegno in difesa della vita, ma anche a tutti quelli che cercano sinceramente la verità.

Facciamo dunque nostra questa fiduciosa ed ardente pre­ghiera scritta dal beato Papa Pio IX: «Dolcissimo Gesù, nostro divino Maestro! Voi che sempre vanificaste le infami astuzie con le quali i farisei vi assalivano! Distruggete le trame degli empi e di tutti quelli che, nella meschinità del loro animo, cer­cano di sedurre e traviare il vostro popolo con le loro false sot­tigliezze. Illuminate tutti noi, vostri discepoli, con la luce della vostra grazia, affinché non ci accada di venir corrotti dall'astuzia dei sapienti di questo mondo, che diffondono ovunque i loro funesti sofismi tentando di trascinare anche noi nell'errore. Concedeteci una luce della fede così forte da sma­scherare le insidie degli empi, credere fermamente ai dogmi della vostra Chiesa e respingere con costanza le massime in­gannevoli. Così sia».

1 - Le conseguenze dell'aborto
«Colui che ha sparso il sangue dell'uomo, dall'uomo vedrà sparso il proprio sangue, perchè è a propria immagine che Dio ha creato l'uomo» (Genesi, 9, 6)

D. 1: Che cosa è un aborto?

R. 1: L'aborto è il procedimento volontario che interrompe lo sviluppo del bambino durante la gravidanza nell'utero ma­terno, fatto con lo scopo di sopprimerne la vita. «Aborto signi­fica l'espulsione di un feto o embrione vivo di una donna allo scopo di sopprimerlo» (Legge francese del 1975 sull'aborto).
Benché la morte involontaria di un nascituro sia definita, in termini medici, come «aborto spontaneo», questa tragedia, chiamata con maggior compassione «falso parto», non è l'ar­gomento di questo libro; qui ci occupiamo solo dell'aborto vo­lontariamente provocato.
Quando il nascituro viene ucciso nell'utero materno, si tratta di un vero e proprio assassinio, tanto che si può parlare di omici­dio prenatale. Tuttavia, quando il bimbo, essendo nato vivo, vie­ne ucciso dopo il parto, si tratta di un infanticidio.

D. 2: Quali sono i metodi usati per uccidere il nasci­turo durante i primi tre mesi della sua vita uterina?
R. 2: I metodi per abortire i nascituri entro il termine fissato dalla legge comprendono gli abortivi, l'espulsione per aspira­zione e quella per raschiamento.

D. 3: Che cos'è un abortivo?

R. 3: Un abortivo è ogni prodotto farmaceutico, chimico, od ogni dispositivo che provoca la morte del nascituro, talvolta in­tossicandolo direttamente. In questa categoria sono compresi la «pillola del giorno dopo», la «spirale» e la pillola RU 486.

D. 4: La pillola RU 486 è una facile soluzione alla controversia sull'aborto?

R. 4: In Francia e in Gran Bretagna, un potente steroide sin­tetico è stato utilizzato per provocare l'aborto nelle madri in­cinte da 5 a 7 settimane. Negli Stati Uniti, l'Ufficio per il Con­trollo Farmaceutico e Alimentare ha pubblicato una nota di allarme riguardo la pillola RU 486, proibendone l'importa­zione ad uso personale, poiché essa comporta un pericolo per la donna. Ancora poco tempo fa, prima di cedere il brevetto della pillola, la casa farmaceutica che la produceva (la fran­cese Roussel Uclaf) raccomandava di usarla solo tenendo pronto l'occorrente per una eventuale rianimazione d'urgenza.
«La RU 486 non è di facile uso», ammetteva Edward Sa­king, ex P.D.G. della Roussel Uclaf, «una donna che voglia porre fine alla propria gravidanza con questo metodo, deve "vivere" col proprio feto abortito durante almeno una settima­na. Si tratta di una spaventosa prova psicologica».

D. 5: Come viene praticato l'aborto mediante aspi­razione?

R. 5: Nel metodo mediante aspirazione, l'orifizio esterno del collo uterino viene progressivamente allargato; una cannu­la vuota viene introdotta all'interno dell'utero, allo scopo di estrarre il nascituro mediante aspirazione, espellendolo all'esterno. Questa aspirazione è prodotta da un apparecchio simile all'aspirapolvere domestico, ma molto più potente.
La morte del nascituro viene provocata smembrandogli le braccia e le gambe. I resti fetali vengono trasformati un una marmellata sanguinolenta. Questo è il metodo più frequente­mente usato.

D. 6: Come viene praticato l'aborto mediante ra­schiamento?

R. 6: Nel metodo di dilatazione e raschiamento, un lungo strumento, la cui estremità forma un affilato cucchiaino, viene introdotto nell'utero per raschiarne le pareti eliminandone così il contenuto. Questo metodo, a volte aiutato dall'aspirazione, viene utilizzato per curare chirurgicamente le emorragie delle donne non gravide. Esso quindi non è di suo abortivo.

D. 7: Quali metodi vengono usati per uccidere i nascituri dal terzo al nono mese di vita uterina, in al­cuni Paesi che lo autorizzano?
R. 7: I procuratori di aborti usano vari metodi per uccidere i nascituri durante il secondo e il terzo trimestre di gravidanza. Essi comprendono dilatazione ed espulsione, iniezione di una soluzione ipertonica di sale, uso delle prostaglandine, isteroto­mia e aborto mediante nascita parziale.

D. 8: Come funziona il metodo di aborto mediante dilatazione ed espulsione?

R. 8: Nel caso della dilatazione ed espulsione, il collo uteri­no viene dilatato a forza. L'apertura deve qui essere maggiore di quella adoperata nel metodo per aspirazione usato nel primo trimestre di vita, in quanto la vittima da smembrare ha già dalle 13 alle 24 settimane e quindi è di maggiore taglia. Siccome le ossa del nascituro sono più solide, si usano pinze per smem­brarle (dapprima braccia e gambe, poi la schiena). Infine viene frantumato il cranio, per poter estrarre la testa mediante aspira­zione. I resti fetali possono essere estratti con un forcipe ad anello.
Durante questa procedura, nessuna anestesia viene pratica­ta sul nascituro, poiché l'agonia di questa vittima indifesa deve ad ogni costo essere negata.

D. 9: Come può essere usata, per provocare un aborto, una soluzione ipertonica di sale?

R. 9: Questo metodo consiste nell'iniezione di una solu­zione ipertonica di sale (comunemente ma scorrettamente det­ta salina). Un ago lungo 8 centimetri fora la parete dell'addome e quella dell'utero, estraendo 60 cl. di liquido amniotico e poi iniettando 200 cl. di soluzione ipertonica di sale nella cavità che racchiude il nascituro.
Abituato al piacere di bere il liquido nel quale è immerso, il nascituro fa l'esperienza del gusto amaro del fatale veleno. A poco a poco il sale gli brucia la pelle, la gola e gli intestini; egli cerca invano di fuggire, rivoltandosi da un lato all'altro dell'utero con violente contorsioni. La sua atroce agonia può durare delle ore. Infine, il feto viene espulso dalle viscere ma­terne; il suo corpo appare rosso dalle bruciature, per cui alcuni procuratori di aborto parlano di «effetto caramello».

D. 10: Che cos'è un aborto mediante prostaglan­dine?

R. 10: Le prostaglandine sono ormoni che provocano le contrazioni del parto. Esse possono essere iniettate nel liquido amniotico o somministrate sotto forma di compresse vaginali.
Di conseguenza la madre subisce un parto prematuro, gene­rando un feto nato-morto oppure troppo piccolo per poter so­pravvivere fuori dall'utero. A questo punto il bimbo viene sem­plicemente lasciato senza cure e quindi muore.

D. 11: Come può una isterotomia diventare una pratica abortiva?

R. 11: Nel caso di una isterotomia, come per quello del parto cesareo, l'addome e l'utero materni vengono aperti chirurgica­mente. Ma mentre il taglio cesareo viene praticato per salvare la vita del nascituro, l'isterotomia viene invece praticata per soppri­merla. Alcuni medici usano la placenta per soffocare il bimbo.

D. 12: Che cosa s'intende per «aborto mediante nascita parziale» ?

R. 12: L'aborto mediante nascita parziale comporta l'estra­zione di un feto dal collo dell'utero, prendendolo per i piedi tut­to intero tranne la testa. Il chirurgo poi affonda delle forbici alla base del cranio, le apre al massimo per dilatare l'orifizio e mediante aspirazione estrae il capo.
In forza della testimonianza di una infermiera che, avendo as­sistito a vari aborti di questo tipo, aveva dichiarato che i legislatori dovrebbero essere costretti ad assistervi prima di legalizzarli, la Camera dei Deputati statunitense ha votato una legge che vieta questo tipo di aborto, sotto pena della prigione e di una multa.

D. 13: L'aborto è un atto chirurgico sicuro?

R. 13: I fautori dell'aborto mentono alle donne, quando fanno loro credere che l'aborto legale è per ciò stesso sicuro. Le statistiche dimostrano che la realtà è ben diversa. Molte donne, che pretendono di ottenere con l'aborto «la libertà riproduttiva», possono compromettere o perdere del tutto e definitiva­mente le loro facoltà riproduttive, restando sterili a vita. Anche usando le migliori tecniche chirurgiche, nella fase dell'aspira­zione o del raschiamento, quando la plastica e il metallo degli strumenti vengono messi a contatto con i tessuti delicati dell'utero, può derivarne una lesione degli organi interni. Ma anche se non avvengono lesioni, l'aborto può danneggiare il si­stema immunitario.

D. 14: L'aborto è il solo danno che mette in perico­lo il nascituro nel ventre materno?

R. 14: No: il bimbo può essere vittima di un infanticidio. L'innesto del tessuto fetale, che necessita l'utilizzazione di un feto vivo per recuperarne i tessuti viventi, viene talvolta fatto passare per un aborto. Ma questi tessuti non vengono prelevati da un feto, poiché si tratta in realtà di un bimbo vivo, per cui qui si tratta di un infanticidio o di una eutanasia a fine utilitari­stico.

D. 15: Non è più rischioso condurre a termine una gravidanza piuttosto che abortire?

R. 15: Tutt'altro. E' stato verificato che la gravidanza è più sicura dell'aborto, sia nella prima che nella seconda metà della fase. Le statistiche spesso citate per sostenere l'argomento contrario sono ingannevoli.
Gli abortisti paragonano sistematicamente il tasso di mor­talità delle madri (nel caso di aborto provocato nelle prime 12 settimane di gravidanza) con il tasso di mortalità delle madri durante l'intero periodo di gestazione, al momento del parto, come pure del periodo che ne segue; inoltre, per sovrappiù, in quelle statistiche viene conteggiato anche il tasso di mortalità in caso d'incidenti o di malattia. Comparare i rischi dell'aborto praticato nelle prime due settimane di gravidanza con i rischi del parto nei nove mesi, è ingannevole e anti-scientifico

D. 16: Quali complicazioni possono sorgere in una madre per causa dell'aborto?

R. 16: Una donna che si sottopone ad un aborto può svilup­pare, fra le altre, le seguenti patologie:
Emorragia. In un'epoca in cui il sangue può trasmettere il virus dell'AIDS, l'emorragia uterina può mettere in pericolo la vita della madre; le donne che abortiscono possono infatti aver bisogno di trasfusioni di sangue, a causa di serie emorragie. Per questa ragione, anche la pillola RU 486 richiede una stretta sorveglianza, perché comporta il rischio di emorragia.
Infezione. Se dopo l'aborto nell'utero rimangono parti del feto, o se gli strumenti chirurgici usati non erano ben sterilizza­ti, la madre rischia la sterilità definitiva per colpa di una infe­zione delle tube uterine.
Lesione del collo uterino. Gli strumenti utilizzati per dila­tare il collo uterino possono danneggiarlo, provocando nelle future gravidanze l'insorgere di aborti spontanei oppure nasci­te premature. Anche gli aborti chimici possono portare a futuri aborti spontanei.
Perforazione dell'utero. Un aborto mediante raschia­mento può perforare la parete uterina provocando una infiam­mazione (peritonite); questo può costringere ad un intervento chirurgico che asporti l'intero utero, rendendo la donna defini­tivamente sterile.
Perforazione dell'intestino. Durante un aborto mediante aspirazione o raschiamento, una manovra errata può far sì che lo strumento perfori non solo l'utero ma anche il colon; si rende allora necessaria una operazione chirurgica (resezione) per asportare la parte dell'intestino rimasta danneggiata.

D. 17: Quali ulteriori complicanze possono essere provocate da un aborto?

R. 17: Anche se non viene colpita da complicanze imme­diate, la madre che abortisce può subire conseguenze tardive, fra le quali:
Nascita di bimbi morti o handicappati. Le donne il cui sangue ha il fattore RH negativo e che non ricevono un anti-siero (RHo (D) immunoglobulina), possono reagire al sangue di tipo RH positivo del padre, facendo correre ai nasci­turi il rischio di una eccessiva distruzione dei loro globuli rossi (malattie emolitiche), conducendoli a morire prima del parto o a nascere handicappati.
Infiammazione pelvica. La malattia infiammatoria del bacino è «una malattia grave, abituale conseguenza dell'abor­to, nel 30% dei casi del quale viene segnalata». Questa in­fiammazione può condurre ad aborti spontanei, alla sterilità e a dolori pelvici cronici.
Aborto spontaneo. Le donne che hanno abortito sono sog­gette agli aborti spontanei, con un tasso più elevato del 35% in rapporto alle donne che non hanno abortito.
Parto difficile. Le donne che hanno abortito sono soggette a complicanze nei futuri parti e/o nelle future gravidanze.
Nascita prematura. Le nascite premature sono da 2 a 3 volte superiori nelle donne che hanno abortito, in rapporto a quelle che non hanno mai abortito.
Cancro al seno. Vi sono gravi timori che l'aborto possa au­mentare il rischio del cancro al seno, in particolare se ad essere abortito è il primo figlio. «Le donne che abortiscono al primo trimestre di gravidanza raddoppiano il rischio di contrarre un cancro al seno, in rapporto alle donne che portano a termine la loro gravidanza».
Gravidanza extra-uterina. Nella gravidanza extra-uteri­na il feto si sviluppa nelle tube di Falloppio, piuttosto che nell'utero, mettendo quindi la madre in pericolo di morte in caso di esplosione di una tuba. Un rilevante tasso di crescita delle gravidanze extra-uterine è stato constatato nelle donne che hanno abortito. Gli studi dimostrano che il rischio di una gravidanza extra-uterina raddoppia dopo un primo aborto e si quadruplica dopo un secondo. Il pericolo aumenta con la pillo­la RU 486, che è inefficace sulle gravidanze extra-uterine, creando una falsa impressione (inducendo all'emorragia) che la madre non è più incinta.

D. 18: Un aborto può condurre la madre a proble­mi di tipo psicologico?

R. 18: Sì, l'aborto può produrre gravi problemi di tipo emo­tivo, psicologico o psichiatrico:
Perdita di autostima. La donna che ha abortito sente di avere violato la propria missione di madre e di difensore della vita; ne deriva un sentimento di disistima che può arrivare fino al disprezzo di sè.
Sentimento di colpa. In molte donne, si constatano pro­fondi sentimenti di colpa ed anche di amore per il figlio «che avrebbe dovuto nascere». Se poi la donna cerca di negare o di rimuovere la propria colpevolezza, le conseguenze diventano più gravi per lo sforzo fatto di soffocare la coscienza turbata.
Rimpianto, ansia e depressione. In rapporto alle donne adulte, le giovani sono più portate a soffrire di postumi psico­logici a breve termine. Anche se la prima reazione di una don­na che ha abortito è quella di sollievo, ben presto sopravvengo­no sentimenti di rimpianto, di ansia e di depressione.
Sindromi post-abortive. Non di rado la donna reagisce all'aborto in modo simile al turbamento da stress post-trauma­tico che si riscontra nei reduci di guerra. Spesso i primi sintomi si manifestano vari anni dopo l'aborto, quando la donna co­mincia a segnalare problemi mai verificatisi prima, come disistima di sè, intorpidimento della sensibilità, flash-back, difficoltà di concentrazione, insonnia. Il dr. Vincent Rue, uno psichiatra americano che da un ventennio studia le sindromi post-abortive, aggiunge altre conseguenze: «depressione, in­clinazione al suicidio, rottura delle relazioni sociali, uso di droga, abuso di alcool, problemi sessuali, fobie, gravidanze isteriche, sterilità, anoressia».

D. 19: La madre che ha abortito è la sola a soffrire di turbamenti da stress post-traumatico dovuti all'aborto?
R. 19: No. La ricerca dimostra che spesso anche il padre su­bisce gravi reazioni negative, quando si rende conto che suo fi­glio è stato ucciso. La sofferenza del padre è ancor più grave, quando egli è contrario all'aborto e peggio ancora quando la leg­ge - che stabilisce la madre come unico arbitro della gravidanza - gli vieta di proteggere la vita del proprio figlio in arrivo.
Un padre in questa situazione ha espresso il proprio scon­volgimento emotivo con queste parole: «Probabilmente avete letto una cosa simile riguardo i sentimenti di colpa irrisolti e le emozioni represse provati dai reduci della guerra del Vietnam. Questo si chiama "turbamento da stress post-traumatico". Insomma, è il risultato dello sforzo fatto per cancellare o repri­mere l'intensa reazione alla morte ed alla violenza che li cir­condava. Questa reazione è della stessa natura della mia, in se­guito all'aborto praticato sulla mia donna. Quando siamo usciti dalla clinica dopo l'aborto, non era tutto finito per me».

2 - La vittima dell'aborto

«Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai intessuto nel seno di mia madre. Io ti lodo perché mi hai fatto in modo meraviglioso; sono stupende le tue opere. Tu conosci a fondo la mia vita; non ti fu ignota la mia natura, quando venni creato nel profondo e venni formato nell'occulto» (Sal 138, 13-14)

D. 20: In quale momento inizia la vita?

R. 20: Ecco una domanda-trappola, se non definiamo i ter­mini usati. Propriamente parlando, la vita (in astratto) non ini­zia: essa viene trasmessa da cellule viventi derivate da altre cellule viventi; questa continuità della vita è il postulato fonda­mentale della biologia. Tuttavia, la vita (in concreto) ha effetti­vamente un inizio. La questione che determina la natura dell'aborto è dunque la seguente: «Quando inizia la vita uma­na?» Vale a dire: «Quando inizia la vita di un uomo?»
La biologia dimostra che la vita di un nuovo essere umano inizia nel momento della fecondazione, ossia nella fusione tra lo spermatozoo del maschio e l'ovulo della femmina. L'unione di 23 cromosomi del gamete maschile con 23 cromosomi del gamete femminile produce una nuova cellula di 46 cromoso­mi. «Questa cellula viene chiamata zigote; essa contiene un nuovo codice genetico, che produce un individuo differente dal padre e dalla madre e da ogni altra persona nel mondo». Ciò avviene dalle 12 alle 18 ore dopo il rapporto sessuale.

D. 21: Volete dire che una sola cellula costituisce già un essere umano?

R. 21: Sì. L'embriologo Keith Moore dichiara: «Ognuno di noi ha iniziato la propria vita in un unico zigote monocellu­lare».
Come afferma il già citato manuale di ostetricia, il bimbo appena concepito ha il proprio patrimonio genetico, distinto da quello del padre e della madre. Sul piano biologico, lo zigote non è affatto un essere impersonale, ma è lui o lei in miniatura, poiché la sua monocellula è maschile o femminile. Lui o lei è già un essere umano nuovo, unico e completo.
Unico, perché non è mai esistito in passato e non esisterà mai più in futuro un essere identico a lui. Come affermano i medici Landrum Shittles e David Rorvik, «il concepimento conferisce la vita rendendola una vita unica nel suo genere».
Completo, perché il codice genetico (genotipo) dello zigote contiene l'informazione su tutte le caratteristiche del nuovo es­sere umano: statura, colore degli occhi, dei capelli e della pelle, eccetera. «Il genotipo - ossia le caratteristiche ereditarie di un essere umano unico - è stabilito al momento del concepimento e resterà in vigore durante tutta la vita del nuovo individuo»".
Se dunque la cellula fecondata è già un individuo umano, essa è già anche una persona umana, sebbene le sue facoltà spi­rituali non siano ancora sorte, forse per il fatto che l'anima non è ancora giunta a costituire la spiritualità umana. In una visione corretta della persona, infatti, l'anima non può essere contrap­posta dualisticamente al corpo, ma i due elementi dell'essere umano devono essere considerati come indissolubili. Non è quindi possibile distinguere l'individuo dalla persona, imma­ginando uno zigote che non sia ancora essere umano; l'inizio della persona umana deve coincidere con quello della vita bio­logica.

D. 22: Lo zigote non è solo una potenzialità di es­sere umano?

R. 22: No. Lo zigote non è una potenzialità di essere uma­no, ma semmai è un essere umano in potenza di diventare adul­to. Si può dire che lo sperma e l'ovulo, prima della loro fusione, costituiscono una potenzialità di essere umano; ma una volta che la loro fusione è avvenuta, esso costituisce già un vero es­sere umano, anche se con molte potenzialità ancora inattuate.

D. 23: Questa nuova cellula non è solo un abbozzo di uomo?

R. 23: Questo paragone è diffuso fra gli abortisti ma è evi­dentemente assurdo. Un abbozzo è solo un progetto architetto­nico, fatto su cartone, che da solo non si trasformerà mai in una casa o in un'altra struttura, per quanto lo si possa perfezionare. Per contro, il feto si svilupperà autonomamente fino a nascere e a diventare un uomo adulto, se non viene abortito. Dunque, distruggere un abbozzo non è la stessa cosa che distruggere un edificio; invece, distruggere uno zigote equivale ad uccidere un essere umano già esistente.

D. 24: In quale momento avviene l'annidamento dello zigote?

R. 24: Dopo il concepimento, lo zigote inizia a muoversi per raggiungere l'utero e insediarvisi. Circa 16 giorni dopo la fecondazione, il processo di divisione cellulare e già comin­ciato e lo zigote si annida nel nido nutritivo dell'utero (endo­metrio). «A partire dal settimo giorno, comincia un autentico rapporto tra la madre e il figlio», scrive il dr. E. Bleche­shmidt. L'annidamento si compie attorno al dodicesimo gior­no dopo la fecondazione.

D.25: Si può dire che, prima dell'annidamento nell'utero, esiste solo un «pre-embrione» privo di na­tura umana, per cui si può parlare di essere umano solo dopo questo annidamento?
R. 25: Niente affatto. Questa tesi è anti-scientifica e serve solo a giustificare cinicamente la manipolazione dell'em­brione nelle sue prime settimane di vita, negandogli la dignità umana. In realtà, nulla è cambiato nell'embrione una volta che si è annidato nell'utero: ha solo occupato la sua prima casa; po­tremmo forse dire che un uomo è tale solo dopo che alloggia in un'abitazione, emarginando così i senza-tetto in una categoria pre-umana?
Si pretende anche che l'annidamento segni l'inizio della vita umana, in quanto con esso si stabilisce un rapporto biolo­gico tra l'embrione e sua madre. Ma non è il rapporto con qual­cuno a costituire l'essenza di un uomo, bensì al contrario è l'esistenza di una vita umana a rendere possibile un rapporto bilaterale; per avere rapporti con qualcuno bisogna prima es­sere qualcuno.
Nella natura dell'embrione nulla è cambiato nel passaggio dalla fase precedente a quella successiva all'annidamento; dunque si tratta dello stesso essere umano; e del resto, se così non fosse, quella madre non avrebbe rapporti con qualcuno ma con qualcosa.

D. 26: Le cellule del figlio non provengono dalle cellule della madre?

R. 26: No. Secondo la biologia e la genetica, è l'embrione che, con una vera esplosione di vitalità, intraprende il proprio autonomo sviluppo nelle viscere della madre. Il dr. Bart Hef­fernan descrive questa fase dinamica dello sviluppo: «Fin dal concepimento, il figlio è un individuo complesso, dinamico, dalla crescita rapida. Mediante un processo naturale e conti­nuo, un solo ovulo fecondato si sviluppa in molti miliardi di cellule nel corso dei nove mesi». «Dopo l'ottava settimana, non rimane più nessun abbozzo (rudimento di organo embrio­nale); tutto è al suo posto e lo si ritroverà nel neonato».

D. 27: Quand'è che l'embrione è «vitale»?

R. 27: Come pure molti termini lanciati dagli abortisti, an­che quello della «vitalità» è ambiguo e quindi pericoloso.
Se, per «vitalità», s'intende la capacità del concepito di svi­lupparsi indipendentemente dalla madre, il buon senso ci porta a dire che allora non solo i nascituri, ma anche i neonati, per quanto possano essere sani e di grandezza giusta, non sono «vitali». Senza la costante cura da parte della madre o di altre persone che lo assistono, il neonato non sopravvive e muore ben presto.
Ancora nel XX secolo, i bambini nati prematuramente pri­ma del settimo mese di gravidanza morivano, perché le tecni­che dell'epoca non avevano i mezzi adeguati per salvarli. Oggi noi siamo in grado di salvare un bebè nato al termine di sole 20 settimane di gravidanza, e gli scienziati stanno lavorando per costruire una placenta artificiale che renderebbe «vitali» gli embrioni di appena dieci settimane.
Come si vede, la categoria di «vitalità» non è in grado di identificare la natura umana di un essere vivente, ma solo di valutare la sua capacità di vita indipendente. Applicare questo concetto discriminatorio agli esseri umani nelle varie fasi della loro vita, conduce all'assurdo di condannare a morte mediante eutanasia, in quanto «non vitali», non solo i nascituri, ma an­che le persone incapaci di vita indipendente come gli anence­fali, i pazienti in coma, eccetera.

D. 28: In quale momento il cuore del nascituro co­mincia a battere?

R. 28: Al termine della terza settimana dopo la feconda­zione, il cuore del nascituro comincia a battere, facendo circo­lare il proprio sangue, che può essere di un gruppo sanguigno diverso da quello materno.

D. 29: Quand'è che il nascituro sviluppa il primo abbozzo del sistema nervoso?

R. 29: Lo sviluppo del sistema nervoso centrale ha inizio alla terza settimana dal concepimento; già alla quarta settima­na, il nascituro manifesta attività riflesse complesse, come le reazioni motorie. Dopo la sesta settimana, il nascituro è già provvisto del cervello, tanto che l'elettroencefalogramma (EEG) può registrarne le onde cerebrali.

D.30: Alcuni dicono che si può parlare di vita umana solo quando, essendosi formato nel feto un abbozzo di sistema nervoso, il suo cervello emette le prime onde cerebrali, rilevabili dall' EEG. E' questa una tesi accettabile?
R. 30: Niente affatto. L'umanità del feto non consiste nella sua capacità di emettere onde cerebrali, come l'adulto non è uomo solo se è capace di pensare; altrimenti dovremmo negare la dignità umana ai cittadini anencefalici (ossia privi di cervel­lo) o ai pazienti in coma che non danno segni elettrici all'EEG, condannandoli quindi all'eutanasia. Più in genere, non bisogna scambiare l'esistenza della vita con la mera capacità di dar se­gni di vita, né la razionalità umana con la mera vitalità cere­brale. Come il feto è uomo anche prima di annidarsi nell'utero o di palpitare, così lo è anche prima di emettere onde cerebrali, anche se le sue facoltà vitali possono attuarsi solo progressiva­mente, manifestandosi con crescenti segni esterni rilevabili dagli apparecchi clinici.

D. 31: Potete descrivere la vita intra-uterina del nascituro?

R. 31: La vita intra-uterina è stata ben descritta dal dr. Wil­liam Liley, il «padre della fetologia». Il nascituro, capace di ambientarsi e di tendere al proprio fine, s'impianta nella cavità spugnosa dell'utero e, imponendo la propria presenza, inter­rompe il ciclo mestruale della madre. Nei successivi 270 gior­ni, l'utero diviene la casa dell'embrione; per renderla abitabile, egli si produce una placenta e una capsula protettrice di fluido (liquido amniotico).
Egli si muove con agilità e grazia nel suo mondo fluttuante. E' sensibile al tatto, al gusto, alla temperatura, al suono e alla luce. Veglia o dorme; beve il suo liquido amniotico, con piace­re se viene addolcito artificialmente, con dispiacere se gli si dà un sapore sgradevole; può avere il singhiozzo. Talvolta gesti­cola e si succhia il pollice. Si annoia perfino; ma si può solleci­tarlo a rispondere ad un primo segnale e poi anche ad un secon­do diverso. Infine, è lui a determinare il suo compleanno, perché l'inizio delle contrazioni del parto risulta da una inizia­tiva unilaterale del feto.
E' questo stesso feto che, come un paziente qualsiasi, può ammalarsi e necessitare di diagnosi e cure.

D. 32: Il nascituro avverte il dolore?

R. 32: Certo: avendo il senso del tatto, il nascituro è sensi­bile al dolore. La nostra capacità di avvertire e reagire al dolore non comincia dopo né durante la nascita. Nel corso degli ultimi decenni, i progressi nella rilevazione in tempo reale mediante gli ultrasuoni, la fetoscopia, l'EEG fetale, hanno dimostrato la considerevole recettività del nascituro: sensibilità al tatto, e dunque al dolore.
Ha scritto l'ex presidente americano Ronald Reagan: «Dobbiamo renderci conto della realtà degli orrori che si veri­ficano. I medici di oggi sanno che un nascituro, dentro le visce­re della madre, può sentire una carezza, come può reagire al dolore. Ma quanti sono al corrente delle tecniche abortive che bruciano la pelle del feto con una soluzione salina, provocan­dogli una mortale agonia che può durare ore?».

D. 33: Che cos'è la nascita?

R. 33: Ha scritto il dr. Jack Willke: «La nascita consiste nell'uscita del bebè dal ventre della madre, tagliando il cordone ombelicale, e quindi nell'inizio di una vita fisicamente staccata dalle viscere materne. Alla nasci­ta, la sola cosa che muta radicalmente è il sistema di supporto della vita del bebè. Il figlio non è diverso prima o dopo la nasci­ta, eccetto il fatto che ha cambiato il proprio metodo di respira­zione e di nutrizione. Prima di nascere, l'ossigeno e il nutri­mento gli arrivavano dalla madre mediante il cordone ombelicale; dopo la nascita, l'ossigeno gli arriva dai propri polmoni e il nutrimento dal proprio stomaco, se è abbastanza maturo per essere così saziato».

3- La Legge sull’aborto

«Con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi, dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale. «Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa» Papa Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium Vitae, 1995

D. 34: Perché mai la legge dovrebbe intromettersi nel privato dominio della vita sessuale di una donna?
R. 34: Nella sentenza del cruciale processo Roe contro Wade, che nel 1973 ha legalizzato l'aborto negli Stati Uniti, la Corte Suprema americana si basò sul cosiddetto diritto alla protezione della vita privata, sancito e tutelato dalla Costitu­zione.
Ma quello che avviene nell'intimità dell'utero materno non è una faccenda privata della donna; è la formazione e lo svilup­po di un essere umano che ha pieno diritto alla protezione legale. Quando questo viene minacciato di morte, si ha non solo il diritto ma anche il dovere d'interferire nella vita della madre per evitare l'omicidio del nascituro.
L'intimità dell'utero non può dare alla madre una licenza di uccidere all'interno delle sue pareti, così come l'intimità di una casa non può dare al padrone un diritto di eseguire un omicidio dentro le sue mura. I pompieri e la polizia violano a pieno dirit­to la proprietà privata, per salvare la vita di persone che vi si trovano dentro, ad esempio abbattendo le porte delle case in fiamme per soccorrere coloro che vi sono rimasti imprigionati.

D. 35: Se l'aborto viola le vostre convinzioni mora­li e religiose, potete rifiutarlo. Ma non potete impe­dire ad altri di ricorrervi. Perché mai la legge dovreb­be imporre una certa moralità pubblica, violando l'autonomia delle coscienze e facendo decidere altri per loro?
R. 3 5: Una decisione resta personale solo nei limiti in cui si riferisce esclusivamente agli interessi e ai diritti della persona che decide. Ma se coinvolge gli interessi e i diritti esclusivi di altri, tale decisione non è più personale ma delegata. Tuttavia nessuno può delegare un diritto che non gli appartiene, tanto più se è primario come quello alla vita. La vita infatti appar­tiene esclusivamente al suo Creatore e spetta a Lui, come il darla, così il riprendersela; per cui nessuno può sopprimere un essere umano innocente, nemmeno la madre.
Sopprimere qualcuno in nome della libertà di gestire la propria vita privata, significa annientare la stessa ragion d'essere di ogni vita privata: ossia la dignità dell'uomo creato ad immagine di Dio. L'aborto, il massacro dei nascituri, non è una scelta privata ma un crimine privato che grida vendetta da­vanti a Dio e agli uomini, reclamando giustizia.
Come sarebbe assurdo tollerare che certi genitori commetta­no abusi sessuali sui loro figli, col pretesto che si tratta di una faccenda privata che avviene all'interno della famiglia, così è assurdo tollerare che una donna sopprima il figlio che porta in seno, col pretesto che si tratta di una faccenda privata che avvie­ne all'interno del suo utero. Dopo tutto, l'aborto è l'abuso per ec­cellenza che una madre possa commettere verso suo figlio.

D. 36: Perché i diritti di un feto in gestazione do­vrebbero prevalere su quelli di una donna adulta?
R. 36: Vi sono diverse categorie di diritti, che sono disu­guali moralmente e giuridicamente; i diritti primari o originari devono prevalere su quelli secondari o derivati. Quello alla vita è il diritto primario e originario per eccellenza, senza il quale non è possibile esercitare tutti gli altri; esso va dunque difeso più e prima degli altri, che possono essergli sacrificati, se necessario, anche se teoricamente legittimi.
Una madre che vuole abortire pretende di esercitare un proprio diritto secondario e derivato -quello di «gestire il pro­prio corpo» o di liberarsi da un «problema» - sacrificandogli il diritto primario e originario - quello di vivere - non proprio, ma altrui: cioè del figlio. Dunque ella pretende di ottenere un proprio (discutibile) vantaggio facendolo però pagare al figlio, e al carissimo prezzo della vita, realizzando così l'esatto rove­scio del sacrificio materno. Per questo la legge ha il dovere di vietare l'aborto: perché rovescia la gerarchia dei diritti/doveri.

D. 37: Ma la legge non dovrebbe almeno autoriz­zare una eccezione: quella dell'aborto terapeutico, nel caso in cui la vita della madre sia in pericolo?
R. 37: Un medico che cura una donna incinta non ha un solo paziente ma ne ha due: la madre e il figlio. Non c'è nulla di «terapeutico» nel sopprimere volontariamente il secondo col pretesto di salvare la prima; uccidere non può costituire una te­rapia. Il prof. Charles Rice, docente alla facoltà di Diritto dell'Università di Notre-Dame, sostiene che «non esiste situa­zione in cui l'aborto sia medicalmente necessario per salvare la vita della madre». Il dr. Roy Hefferman, della Tufts Univer­sity, ha dichiarato al Congresso dei Chirurghi Americani: «Chiunque pratichi un aborto "terapeutico" o ignora i moderni metodi di trattamento nei casi di complicanze nella gravidan­za, oppure non ha volontà di usarsene».
Del resto, il fine buono non giustifica l'uso di un mezzo cat­tivo: il sacrificio diretto del nascituro non è mai giustificato, anche se viene fatto nella presunzione di ottenerne un buon ri­sultato. Non si può parlare invece di omicidio quando, pur ten­tando il medico di salvare sia la madre che il figlio, quest'ulti­mo muore per il semplice fatto di essere il più debole.

D. 38: Perché mai la legge dovrebbe favorire la vita del nascituro discriminando quella della madre già nata?
R. 38: La legge non può fare favoritismi discriminando una vita innocente rispetto ad un'altra ugualmente innocente. Ma proprio per questo essa deve proibire l'aborto, riflettendo il principio così saggiamente espresso da Papa Pio XII: «La vita umana innocente, quale che sia la sua situazione, dev'essere tutelata, fin dal primo momento della sua nascita, da ogni attacco volontariamente diretto. Questo principio si applica alla vita del nascituro come a quella della madre. La Chiesa non ha mai insegnato che la vita di un figlio dev'essere preferita a quella di sua madre. E' un errore formulare la que­stione in questa alternativa: "o la vita del figlio o quella della madre". No: né la vita del figlio né quella della madre possono essere sottoposti all'atto di soppressione. Per l'uno come per l'altra, la sola esigenza necessaria può essere la seguente: met­tere in opera tutti gli sforzi per salvare le due vite, tanto quella della madre che quella del figlio»".

D. 39: La legge non dovrebbe permettere l'aborto almeno in caso di violenza sessuale o d'incesto?
R. 39: Una donna che è vittima di violenza sessuale ha di­ritto di resistere al suo aggressore. Ma il figlio che nascerà non è un aggressore, bensì la seconda vittima innocente; egli quin­di non può essere ucciso per rimediare alla colpa commessa da suo padre. «Punire l'aggressore, non suo figlio!», osserva giustamente Miriam Cain. «Lo Stato dovrebbe semmai impor­re la pena di morte ad ogni violentatore che ha commesso quel crimine, ma non all'innocente bebè che ne è la conseguenza. Aggiungere un secondo male al primo non produce un bene. Il figlio non deve pagare per il crimine commesso dal padre».

D. 40: La legge non dovrebbe permettere l'aborto almeno nel caso di un feto minorato, per evitargli l'infelicità di nascere handicappato e per risparmiare alla madre il problema di un figlio privo della «quali­tà della vita»?
R. 40: Come abbiamo detto, la dignità dell'uomo non di­pende dalla perfezione delle funzioni vitali; ne deriva che la «qualità della vita» non dipende dalla sanità o integrità delle funzioni fisiche o psicologiche della persona. Un handicappa­to, anche se grave, non cessa per questo di essere uomo e quin­di di avere diritto alla vita; egli merita - sia prima che dopo la nascita - la stessa protezione legale garantita a tutti gli altri cit­tadini. Chi gli nega questa protezione fomenta una odiosa di­scriminazione che mina le basi della convivenza civile. Non esiste alcuna distinzione ragionevole tra il massacro dei nasci­turi e quello dei nati handicappati. Sopprimere un nascituro per via dei suoi handicap costituisce un autentico caso di euta­nasia prenatale.
Giustamente Papa Giovanni Paolo II denuncia quella «guerra dei potenti contro i deboli nella quale una vita, che do­vrebbe richiedere una maggiore accoglienza, viene considera­ta come inutile, attribuendole un peso insopportabile, e pertan­to viene rifiutata». Il dr. Eugene Diamond dichiara: «La constatazione di anomalie genetiche durante la vita prenatale ha prodotto lo stesso effetto della creazione di una zona franca in cui si può liberamente tirare al bersaglio».
L'argomento che pretende giustificare l'aborto per garanti­re la «qualità della vita» non è caritatevole bensì criminale: in nome della qualità, esso pretende di sopprimere la vita per ga­rantirne la «qualità». Inoltre esso costituisce una grave illusio­ne sulla possibilità di garantirsi tale «qualità». Il prof. Jerome Lejeune, noto genetista francese, riferisce questa significativa confidenza fattagli da un suo collega americano: «Tanti anni fa, mio padre era un medico ebreo che esercita­va la professione a Brenau, in Austria. Un giorno nacquero nella sua clinica due bebè. Uno era un maschio forte e di buona salute, che emetteva potenti vagiti. L'altra era una femmina mongoloide, e i suoi genitori erano tristi. Ho seguito la vita di questi due bebè per quasi 50 anni. La bambina handicappata crebbe nella casa paterna e da adulta fu in grado di prendersi cura della madre, colpita da un attacco cardiaco, durante la sua lunga malattia. Non mi ricordo il nome di quella bambina. Invece mi ricordo bene il nome del bambino sano, perché egli da grande fece massacrare milioni di persone e morì in un bun­ker a Berlino. Il suo nome era Adolf Hitler».

D. 41: L'embrione sembra mancare di tutto quello che si attribuisce ad una persona umana: ragione, sentimenti, libertà, indipendenza. Dato che la perso­nalità si sviluppa progressivamente, la legge non do­vrebbe considerare il nascituro come una persona solo in potenza?
R. 41: Come l'esistenza della natura umana non dipende dallo sviluppo delle proprie potenzialità fisiche, così essa non dipende dallo sviluppo delle proprie potenzialità psicologiche (come la «personalità»); tutte queste potenzialità presuppon­gono l'esistenza della natura umana, ma non la costituiscono. Un uomo è persona ben prima di svilupparsi una propria «per­sonalità». Dunque non possiamo discriminare i nati o i nasci­turi in base al loro grado di sviluppo personale.
Se così non fosse, dato che la personalità viene conseguita solo gradualmente, in un processo che continua anche dopo il parto e arriva fino all'adolescenza, allora sarebbe lecito soppri­mere non solo i nascituri ma anche i bambini e i fanciulli che ri­sultassero «immaturi». La gravità dell'omicidio dipenderebbe dall'età della vittima: uccidere un bimbo di 3 anni, che non ha ancora raggiunto l'uso della ragione, non sarebbe un crimine paragonabile a quello di uccidere un fanciullo di 13 anni. Oppure la gravità dell'omicidio dipenderebbe dalla maturità e consapevolezza della vittima: i nascituri, le persone mental­mente o psicologicamente handicappate, i malati in coma e tutte le altre categorie di persone in qualche modo minorate, verrebbero arbitrariamente private del riconoscimento di per­sonalità e quindi del diritto a vivere; diventerebbe allora lecito ucciderle, non appena risultassero di peso per i parenti o per la comunità. L'iniziale sofisma sulla «personalità» finirebbe così col giustificare non solo l'aborto ma anche l'infanticidio e l'eutanasia.
Del resto, si potrebbe anche dire che la formazione della personalità non termina mai, per cui nessun essere umano riu­scirà a sviluppare completamente la propria personalità, di­ventando perfetto. Resterà sempre una persona incompiuta, mancando sempre di qualche elemento necessario per rag­giungere questa pienezza. In ogni fase della vita l'uomo ha bi­sogno di svilupparsi, che si tratti dello sviluppo intellettuale, di quello educativo, di quello affettivo, di quello comunicativo, eccetera. Se la personalità dipendesse dalla perfezione, si trat­terebbe di un risultato mai conseguibile, di un'autentica utopia.

D. 42: Perché mai una legge «proibizionista» do­vrebbe obbligare la donna ad una maternità che non accetta?
R. 42: Una legge che proibisce l'aborto non pretende certo di costringere la madre ad «accettare» un figlio indesiderato, ma vuole solo impedire che questo rifiuto si traduca in un omi­cidio. Una volta partorito, la donna può rifiutare il figlio facen­dolo adottare da qualcuno.
Comunque, una donna incinta è già madre; il suo figlio già esiste. Come il corpo materno provvede organicamente al bambino che ha in seno, così la psicologia della donna deve adeguarsi alla realtà della maternità, accettando la responsabi­lità della nuova vita che ha fatto sorgere.

D. 43. Ma se la legge non permettesse l'aborto, le donne non verrebbero costrette ad abortire clande­stinamente, rischiando così la vita?
R. 43: Le statistiche provano in maniera certa che, nei Pae­si in cui l'aborto è stato legalizzato con l'illusione di prevenire gli aborti clandestini, non solo il numero di aborti ottenuti legalmente è aumentato in modo progressivo, ma il numero di quelli clandestini non è diminuito.
Il dr. Christophe Tieze, un abortista, ammette: «Benché lo scopo principale delle leggi sull'aborto sia stato quello di ri­durre l'incidenza degli aborti clandestini, questo risultato non è stato raggiunto. Al contrario, apprendiamo da varie fonti che gli aborti, sia legali che illegali, sono aumentati» .
Questo non deve meravigliare. Le donne che desiderano nascondere la loro gravidanza, ad esempio quando è frutto di un adulterio, preferiscono ricorrere alla clandestinità, perché né un pubblico ospedale né una clinica privata garantiscono quell'anonimato necessario per nascondere la loro colpa. Inol­tre le donne che desiderano abortire dopo il termine massimo concesso dalla legge, per quanto permissiva, non possono far­lo apertamente e quindi ricorrono anch'esse alla clandestinità.

D.44: I ricchi potranno sempre permettersi di abortire illegalmente senza rischi, mentre i poveri re­stano costretti a ricorrere ad una pericolosa e umi­liante clandestinità. Non bisognerebbe quindi evita­re questa discriminazione, concedendo ai poveri la «pari opportunità» di abortire con l'assistenza dello Stato, sia medica che economica?
R. 44: Permettere ai poveri di sopprimere i loro figli non si­gnifica concedere loro una «pari opportunità», ma semmai una «parità di crimine». Inoltre, il pubblico denaro dovrebbe favo­rire la vita, non la morte; dovrebbe essere speso per aiutare i fi­gli dei poveri, non per sopprimerli. Come raccomanda il prof. Rice, «le sovvenzioni pubbliche dovrebbero cessare non solo per gli aborti, ma anche per ogni attività organizzativa che pro­paganda e favorisce l'aborto. Nessuna di queste organizzazioni dovrebbe beneficiare di vantaggi fiscali».

D. 45: Voi ammettete che certi aborti verrebbero praticati anche se la legge tornasse a proibirli. Ma al­lora lo Stato non dovrebbe rinunciare a promulgare divieti che non vengono rispettati?
R. 45: Da quando è possibile eliminare un male legalizzan­dolo? Vi sono leggi che proibiscono di saccheggiare le banche, eppure queste non cessano di essere prese di mira da bande ar­mate. La rapina a una banca è un'attività traumatica e pericolo­sa: clienti, personale e rapinatori possono morire durante l'assalto. Allora lo Stato dovrebbe forse legalizzare il saccheg­gio delle banche, assicurando una pacifica e incruenta «distri­buzione» dei risparmi bancari a beneficio dei rapinatori, illu­dendosi che costoro, accontentandosene, rientrino nella «legalità»?
L'aborto è un crimine ben più grave dell'assalto alle ban­che, perché quello che ruba - la vita - è un bene ben più prezio­so del denaro e inoltre non potrà mai più essere restituito né compensato. Dovremmo allora legalizzare questo crimine atroce?

4 - La società e l'aborto

«La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita. Ognuno, secondo le proprie possibilità, professionalità e competenze, si senta sempre spinto ad amare e servire la vita, dal suo inizio al suo naturale tramonto. È infatti impegno di tutti accogliere la vita umana come dono da rispettare, tutelare e promuovere, ancor più quando essa è fragile e bisognosa di attenzioni e di cure, sia prima della nascita che nella sua fase terminale» Papa Benedetto XVI, Angelus del 3 febbraio 2008

D. 46: E' vero che ogni figlio ha diritto a nascere accettato ed amato dai genitori?

R. 46: Ogni figlio ha innanzitutto diritto a nascere, altri­menti non verrà accettato o amato da nessuno. Dovrebbe anche nascere in una famiglia in cui sia accettato ed amato; ma a questo ideale non si giunge permettendo di sopprimere i figli indesiderati, ma togliendo le cause che contribuiscono al loro rifiuto.
Il dr. Diamond, noto pediatra della Scuola Medica Stricht dell'Università di Loyola (USA), osserva: «Molto viene fatto allo scopo di prevenire la nascita dei figli indesiderati. Ma mi sembra che qui c'è una confusione. Essa consiste nel non riu­scire a distinguere tra il figlio indesiderato e la gravidanza in­desiderata. In 15 anni di esperienza nel campo del rapporto ge­nitori-figli, ho solo rarissimamente incontrato una madre che domandasse di sbarazzarla del figlio una volta che l'aveva con­dotto dalla clinica a casa».
Se una madre non desidera o non è capace di allevare il fi­glio che ha messo al mondo, l'alternativa moralmente accetta­bile non è quella dell'aborto bensì quella dell'adozione. Lo slo­gan «ogni figlio è un figlio desiderato» è uno slogan che significa che «ogni figlio non desiderato è un figlio soppres­so». Una società civile deve rifiutare un tale barbaro slogan.

D. 47: Ma che fare della povera donna del «terzo mondo» che ha già tanti figli? Non ha forse ella un gran bisogno di ricorrere all'aborto?
R. 47: Questa domanda nasconde il sofisma materialistico che possiamo chiamare «aborto socio-economico». Protegge­re le cosiddette «donne del terzo mondo», i poveri, gli emargi­nati, i discriminati, spingendoli o (peggio ancora) costringen­doli all'aborto, come pretende di fare l'ONU, costituisce una flagrante contraddizione. Non è possibile migliorare le condi­zioni di vita puntando sulla promozione della morte. Incitare le povere donne del «terzo mondo» ad uccidere i loro figli non è un esempio di filantropia bensì promozione del genocidio.
La stessa scienza economica ci assicura che non sono i na­scituri i responsabili della fame, dell'emarginazione, della di­scriminazione. Al contrario, la fertilità di un popolo può costi­tuire uno dei fattori della sua ricchezza. E' quindi del tutto ingiusto punire con la morte un bebè accampando pretesti so­cio-economici. Piuttosto, la società internazionale è obbligata a trovare una vera soluzione ai reali problemi del «terzo mon­do». Essa deve proteggere la vita nascente, senza ricorrere all'ipocrita espediente di lavarsene le mani proponendo la falsa soluzione dell'aborto.

D. 48: Perché i difensori della vita non promuovo­no quella «educazione sessuale» che, puntando sulla contraccezione, permetterebbe di evitare il ricorso all'aborto?
R. 48: Spesso si sente dire che la contraccezione porrebbe fine al dramma dell'aborto, e che quindi lo Stato dovrebbe pro­muovere la pianificazione delle nascite; una «educazione ses­suale» dovrebbe insegnare agli adolescenti ad usare in modo efficace i vari tipi di contraccezione, risolvendo così il proble­ma delle gravidanze indesiderate o eccedenti.
In realtà, la contraccezione non costituisce un'alternativa all'aborto ma anzi ne promuove l'accettazione e la diffusione. Essa infatti favorisce una mentalità che ricerca il piacere e ri­fiuta il sacrificio, a qualunque costo; il figlio viene visto come un peso, un problema, un ostacolo alla propria «libertà» ed «autorealizzazione». La contraccezione estingue nelle coppie il desiderio di avere figli e la volontà di accoglierli. Pertanto, quando la contraccezione fallisce od ostacola il piacere, le donne abortiscono senza scrupoli. La mentalità contraccettista spinge dunque a moltiplicare gli aborti invece di eliminarli. Al contrario, le coppie che rifiutano la contraccezione sono molto meno facili a ricorrere all'aborto.
Ha scritto Pedro Juan Viladrich: «La vita umana e le sue origini sono naturalmente legate al comportamento sessuale della coppia umana. Quando la coppia, per una qualunque ra­gione, disprezza la vita, essa banalizza il rapporto sessuale; e quando questo è banalizzato, esso colpisce la vita umana».

D. 49: Uno Stato può legalizzare l'aborto, almeno a precise condizioni?

R. 49: Lo Stato non ha diritto di legalizzare l'aborto, con nessun pretesto e a nessuna condizione; non essendo padrone della vita umana innocente, esso non può sacrificarla a benefi­cio di pretesi interessi sociali o politici. Se legalizza l'aborto, lo Stato legalizza l'omicidio e commette un peccato sociale, mi­nando quelle stesse basi della convivenza civile che dovrebbe tutelare. Il cittadino deve valutare una legge abortista come moralmente illecita e legalmente invalida, alla quale ha tutto il diritto di obiettare in coscienza, di opporsi civilmente e di chie­derne l'abrogazione.
Non cambia nulla il fatto che uno Stato legalizzi l'aborto per decisione democratica di una qualche maggioranza, sia parlamentare che elettorale. La volontà popolare, anche se au­tentica, non ha diritto di stabilire ciò che è buono e giusto, né può trasformare il male in bene; essa può solo tollerare un male inevitabile ma non può legalizzare un male, nemmeno col pre­testo di evitarne uno maggiore.
Afferma Giovanni Paolo II: «Il valore della democrazia sta o cade con i valori ch'essa incarna e promuove. Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli mag­gioranze di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto legge naturale, è iscritta nel cuore dell'uomo ed è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. (...) Quando una maggioranza parlamenta­re o elettorale decreta la legittimità della soppressione della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione ti­rannica nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso? (...) Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo di coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse». (Enciclica Evangelium vitae, nn. 70 e 73).

D. 50: Ma se l'aborto è davvero un omicidio, come può la società tollerare un tale genocidio di milioni di persone all'anno?
R. 50: L'aborto esiste fin dai primordi della storia umana. Come il peccato, esso ha radice nella ribellione dell'uomo a Dio: dal Peccato originale commesso nell'Eden fino alle miria­di di peccati commessi oggi in tutto il mondo. Ma se i nostri an­tenati praticavano l'aborto o addirittura sacrificavano i loro fi­gli a Moloch, le società civili cristiane dei secoli passati hanno condannato l'aborto come un crimine commesso contro Dio e contro l'uomo.
La nostra epoca atea e materialistica abbassa il nostro livel­lo di civiltà al di sotto di quello dei pagani, quando rifiuta l'eredità cristiana per inebriarsi nella ricerca assoluta del pia­cere. L'idolo del piacere, come il Moloch dei tempi antichi, re­clama sacrifici umani; e l'aborto è un tipico esempio di come l'eros disordinato conduce a tanathos, alla morte e a quella for­ma di schiavitù che è il peccato.
Afferma Papa Giovanni Paolo II: «Reclamare il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia, e inscrivere questi diritti nella legge, significa attribuire alla libertà umana un significato malvagio e perverso: quello del potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questo è la morte della vera libertà: "In verità, in veri­tà vi dico: chiunque commette peccato ne diventa schiavo" (Gv. 8, 34)» . Tuttavia, «cercando le radici più profonde della lotta tra la cultura della vita e la cultura della morte, non possiamo restrin­gerle all'idea perversa di libertà. Dobbiamo giungere al cuore del­la tragedia che l'uomo moderno sta vivendo: la perdita del senso di Dio e quindi dell'uomo, tipica di un clima sociale e culturale dominato dal secolarismo che, con i suoi tentacoli onnipresenti, riesce talvolta a mettere alla prova le comunità cristiane. (...) Quando il senso di Dio è perso, si tende a perdere anche il senso dell'uomo, della sua dignità e della sua vita».

Conclusione

E sia, io condanno e rifiuto l'aborto; preser­verò la mia famiglia da questo inganno e da questa piaga. Avrò così fatto tutto quanto e in mio dovere?
R.: No: preservare la propria famiglia non basta. Barricarsi nelle mura di casa non servirà a nulla, se non forse a ritardare un poco la nostra rovina, perché la cultura di morte penetra nel­le nostre case, seduce le nostre anime e manipola le nostre co­scienze, specie quelle dei giovani, con le arti sopraffine impie­gate dai mass-media e dalla loro propaganda.
L'offensiva della cultura di morte è sociale e quindi richiede una controffensiva sociale; è il bene comune della società, ed an­che quello della Chiesa, che sono minacciati, per cui abbiamo il dovere d'impegnarci nel campo civile e religioso in difesa della famiglia, della patria e della Chiesa. Bisogna affrontare il proble­ma alla radice e svellerne le cause. Queste cause sono innanzitut­to culturali, morali e spirituali. Bisogna innanzitutto denunciare la «cultura di morte» nei suoi slogan, nei suoi sofismi, nelle sue seduzioni; poi bisogna lottare contro i suoi promotori, i propagan­disti, i complici. Bisogna anche promuovere come alternativa la cultura della vita, che è in realtà la cultura della verità, quella che si basa sul dogma cristiano e che si esprime nei più nobili senti­menti morali e che si nutre delle virtù religiose e civili, specie quelle che rendono possibile e amabile il sacrificio. Ad eros biso­gna sostituire l'autentico amore cristiano, a tanathos lo spirito di sacrificio. Così facendo, potremo restaurare, con l'aiuto di Dio, le basi della società cristiana, sconfiggendo i mostri del XX secolo che vorrebbero dominare anche il XXI.
L'ora della nostra prova è giunta. Nell'opporci all'aborto e di­fendere la vita, dobbiamo usare l'eterno rimedio: ora et labora, prega e lotta. Noi dobbiamo pregare perché in definitiva tutto di­pende da Dio, ma anche lottare come se tutto dipendesse da noi.

***

Estratto dalla rivista Voglio vivere, Anno VIII, n° 2. 
Scritto reperibile alla pagina web Preghiereagesuemaria.it





sito internet

Twitter del Viandante

 
Photography Templates | Slideshow Software